Nel thriller Una di famiglia le “gemelle” Sydney Sweeney e Amanda Seyfried sono bionde, folli e fedelissime alla causa camp

Senza il timore di esagerare, Sydney Sweeney e Amanda Seyfried conducono con sorprendente verve un thriller che, dopo una partenza disastrosa, trova una sua gustosa quadra.

di Elisa Giudici

Alla vigilia della scorsa cerimonia degli Oscar, il CEO del potente distributore statunitense NEON Tom Quinn partecipò a un noto podcast per parlare della campagna promozionale di Anora di Sean Baker, che avrebbe di lì a poco sbaragliato la concorrenza e vinto anche la statuetta come miglior film dell’anno. Quinn sottolineò come NEON avesse puntato sul film di Baker, tra le molte ragioni, perché aveva un finale semplicemente perfetto. Premi come gli Oscar si vincono quando la pellicola che promuovi si fa ricordare da chi la guarda e uno dei metodi più efficaci è girare un buon film che abbia una chiusa splendida, capace di lasciare dietro di sé un ricordo tangibile e positivo.

Un B movie con un cast glamour di prima categoria

Una di famiglia - The Housemaid fa esattamente questo, prendendo alla lettera il consiglio di Quinn. Da Bridesmaids a Un piccolo favore, il regista Paul Feig sta costruendo un piccolo universo cinematografico fondato su protagoniste femminili dai tratti molto distintivi, così calcati da divenire talvolta volontariamente caricaturali, interpretate spesso da attrici che a loro volta godono di un certo tipo di notorietà e che aggiungono, più o meno direttamente, un ulteriore strato di glamour e gossip a B movie pensati per regalare intrattenimento senza lesinare sull’eccesso e sull’esagerazione. Il realismo, la verosimiglianza o la pacatezza non fanno parte del vocabolario di Feig, che preferisce scandali, cat fight e complotti in un vasto range di pellicole che spaziano dalla commedia al thriller. Rispetto al più recente Un piccolo favore, The Housemaid si rifà proprio al thriller puro, tanto che la sceneggiatura di Rebecca Sonnenshine guarda con insistenza, per costruzione e toni, a Gone Girl - L’amore bugiardo di David Fincher. Quel tipo di approccio e la suddivisione della storia in due distinti punti di vista (che rivedono e talvolta ribaltano il significato di certi eventi) ci sono anche qui, dove le ambizioni sono però di tutt’altro genere, così come i toni e il grado di raffinatezza con cui la storia viene raccontata.

Trad Wife vs Zoomer radicale

Una di famiglia si presenta con un’apertura ai limiti del catastrofico, che ben si accompagna alla situazione della sua protagonista: nonostante si presenti come un’ottima governante con molta esperienza, Millie (Sydney Sweeney) è in realtà una giovane donna senza legami e senza soldi, che sfrutta la sua apparenza di ragazza bella e inoffensiva per tentare di trovare un lavoro e mantenere una condizione di estrema precarietà, dormendo in macchina, comunque preferibile al passato da cui sta cercando di fuggire.

Venire assunta dall’altrettanto bella e bionda Nina (Amanda Seyfried) è un sogno per cui vale la pena mentire e non far troppo caso alle manie nevrotiche e alle crisi di rabbia che la datrice di lavoro dimostra fin da subito. Millie e Nina sono due recenti evoluzioni dell’immaginario femminile politico e social(e), che Feig e la sua sceneggiatrice hanno il merito di essere tra i primi a portare sullo schermo in un film di consumo. Nina è l’incarnazione della tradwife, ovvero la versione aggiornata al secondo mandato Trump della perfetta moglie e madre di casa che supporta il marito, rimane tra le mura domestiche, gira sempre vestita di bianco e senza un capello fuori posto, lodando i valori della famiglia e dedicandosi alle attività comunitarie legate all’istruzione e ai saggi di danza della figlia.

Millie è invece l’inquieta incarnazione di una generazione Z senza prospettive, che non esita ad approcciare lavoro e vita in un’ottica amorale e personale, volta a estrarre il massimo vantaggio possibile, che è comunque a malapena sufficiente alla propria sopravvivenza e indipendenza. Man mano che ne scopriamo la storia, capiamo che Millie ha interiorizzato e radicalizzato le più recenti lezioni del femminismo o, per citare una vecchia battuta di Sherlock, “è dalla parte degli angeli ma non è uno di loro”.

Millie viene dunque assunta per cucinare, pulire la grande magione dei Winchester e occuparsi della figlia, ricevendo in cambio un cellulare, una stanzetta in mansarda dove vivere, vitto e stipendio. L’incarico però si rivela tortuoso: Nina è astuta e falsa quanto lei e le sue relazioni con il marito, la figlia, la suocera e le amiche di vicinato sono ricche di sfumature sinistre e incognite. Inoltre la governante capisce di provare un’attrazione per il marito Brandon (Brandon Sklenar), incredibilmente paziente con le scenate isteriche della moglie e sodale con la nuova assunta, che difende dagli attacchi spesso irrazionali, ma non del tutto infondati, di Nina.

The Housemaid si avvia nel peggiore dei modi, con una serie di riprese stereotipate e dialoghi così fasulli da risultare imbarazzanti. Il film si affretta a fornirci tutte le informazioni necessarie per introdurci a una storia che, dato il successo raccolto da Gone Girl all’uscita, ha almeno un paio di snodi prevedibili nella seconda metà. Il secondo tempo però, è proprio quello in cui il film mostra le sue carte e osa più della tensione triangolare tra l’attrazione di Millie per Brandon e l’ostilità di Nina verso la dipendente. È anche quello in cui gli intoppi iniziali vengono cancellati da un fluire via via più spedito.

Amanda Seyfried e Sydney Sweeney si divertono e ci divertono

Ancora una volta Feig non ha paura di ricorrere all’esagerazione e all’eccesso, cercando un continuo crescendo di tensione e chiedendo molto alle sue protagoniste. Entrambe si dimostrano perfette: Amanda Seyfried è bravissima nel dare in escandescenze, crogiolandosi nell’isteria pura senza perdere mai il controllo del ruolo. Insieme a Il testamento di Ann Lee, l’altro film dell’annata che la vede nei panni di una donna estrema e radicale, sebbene dal registro e dalle ambizioni completamente differenti, Una di famiglia dimostra come Seyfried sappia restituire con naturalezza e genuino trasporto ruoli di grande intensità.

Sydney Sweeney la ritroviamo qui dopo un anno non facile a livello personale, circondata da scandali politici che l’hanno vista diventare, più o meno volontariamente, il volto di una certa narrazione politica repubblicana. The Housemaid arriva dopo una campagna pubblicitaria che l’ha resa radioattiva per parte del pubblico e dopo Christy, il suo progetto filmico “serio” frantumatosi al botteghino insieme ai suoi sogni di salto di qualità interpretativo. Eppure qui Sweeney torna a presentarsi come una sorta di unicum hollywoodiano: un’attrice che non ha paura di usare il proprio sex appeal, ma anche di sporcarsi le mani e la reputazione, in pellicole commerciali che, anno dopo anno, la vedono protagonista e produttrice di una hit silente dopo l’altra.

A ben vedere, il suo ruolo non è certo elogiativo: Millie non ne esce come una cima né come una bella persona. Eppure è lei la vera protagonista della pellicola, che gioca volutamente sulla somiglianza delle sue ossigenatissime protagoniste, sulla resilienza e sulle debolezze che entrambe mostrano e che, da un punto di partenza simile, le conducono a esiti molto diversi. L’idea più stuzzicante, il vero colpo di mano, The Housemaid lo riserva al finale, che sembra quasi trasformare l’intero film nella genesi dell’ennesimo personaggio con cui Sweeney non ha paura di passare, se non per cattiva, almeno per una donna tanto procace quanto poco raccomandabile, pronta a essere sgradevole e a sporcarsi le mani quando necessario.