Edgar Wright non riesce a fare sua la storia di King, ma con The Running Man regala comunque ottimo intrattenimento

Leggero sul fronte dei contenuti, The Running Man trasforma anche i passaggi più oscuri del romanzo di King in uno spettacolo action efficace ma mai davvero memorabile.

di Elisa Giudici

Quello di Edgar Wright è solo uno dei tanti adattamenti tratti dall’immensa opera di Stephen King che arriveranno nel 2025, tra sala e piccolo schermo. A differenza di altri titoli come The Life of Chuck o la serie prequel IT: Welcome to Derry, non è la prima volta che il romanzo di riferimento viene portato al cinema. The Running Man infatti è l’adattamento filmico di L’uomo in fuga, romanzo scritto da King nel 1982 e pubblicato con lo pseudonimo di Richard Bachman. Cinque anni dopo il successo il libreria era arrivato nelle sale L’implacabile con Arnold Schwarzenegger nel ruolo del protagonista Ben Richards, che adattava abbastanza liberamente proprio il romanzo distopico di King. Ruolo omaggiato sulle bancone del Nuovo dollaro nel remake, a strizzar l'occhio a un vecchio film curioso, che spettacolarizzava alcuni malcostumi e derive preoccupanti dei media dell'epoca in chiave futuristica per farne della satira. Col passare del tempo, talvolta senza averlo davvero previsto, L'implacabile ha finito per sempre più come una sorta di monito antico per quel che poi è davvero accaduto, acquisendo persino un pizzico di gravitas nel mare di eccessi parodici che lo contraddistinguono.

Edgar Wright alle prese con Stephen King 

Wright si misura quindi non solo con il libro originale – nato in un periodo prolifico ma complesso per l’autore, alle prese con depressione e dipendenze – ma anche con il precedente adattamento cinematografico, che s’inserisce appieno delle distopie statunitensi che sono rimaste nell’immaginario cinefilo, se non proprio collettivo. Già dai primi minuti, però, pur richiamandone da vicino ambientazioni e approccio con un’estetica molto “distopia anni ‘80”, The Running Man sembra meno capace di avere una propria identità visiva e graffiante.

Quella di conformarsi a un certo immaginario distopico retrò di base (penso per esempio all’appartamentino dove vive il protagonista, in tutto e per tutto identico all’idea stereotipica delle “case da poveri del futuro”) è una scelta legittima, che giova al ritmo e all’intrattenimento, ma rende il film più convenzionale rispetto al materiale di partenza, annacquandone la personalità. Alla regia Wright costruisce un’opera dinamica, ironica e visivamente ricca, che però si ferma spesso alla superficie della potenzialità offerta dai che affronta.

Nel romanzo di King, l’America distopica è dominata dalla televisione, usata per anestetizzare le masse (l’oppio dei popoli in formato reality) e illudere i poveri di poter migliorare la propria condizione sociale. Rivedere oggi quelle stesse premesse fa un certo effetto: nel frattempo, molti altri film hanno esplorato gli stessi meccanismi di spettacolarizzazione della violenza e dell’umiliazione utilizzati per rimarcare le strutture sociali imposte e ingiuste, tanto da rendere prevedibile ciò che il film racconta. In più questo nuovo The Running Man si appoggia all’immaginario pregresso di altri creare la sua distopia mediatica. Tanto che quando il nuovo Ben Richards di Glen Powell scopre la manipolazione e la crudeltà del dietro le quinte televisivo, venendo sparato da un tunnel trasparente all’interno “dell’arena” del suo gioco di sopravvivenza, è inevitabile pensare a Katniss Everdeen che entra nell’arena in Hunger Games.

La distopia di Wright funzionale all'azione e convenzionale 

La parte più politica della storia, la denuncia del potere mediatico e della disuguaglianza, diventa a sua volta quasi un pretesto per rendere il film più spettacolare, in un gioco al rilancio in tema di violenza e crudeltà. Wright sembra preferire il ritmo all’approfondimento, scegliendo di privilegiare la tensione del provino di Ben per entrare nel cast di uno show televisivo, l’azione delle prove che lo porteranno al survival game del titolo e il ricorso a un’ironia che da divertita si fa spesso acida e tagliente. Tutto questo però non è mai al servizio di una storia che faccia quel salto in più, rimanendo una quinta narrativa buona a cacciare Powell in scene d’azione spettacolari. Ogni tanto il film prova a dire qualcosa di serio ma lo fa in quel modo troppo esplicito o semplicistico: un passo falso probabilmente volontario, diventato la cifra stilistica di questi anni per i film d’intrattenimento che provano a dire qualcosa in più ma si limitano a reiterare un concetto all’infinito.

Per sottolineare una sfumatura allo spettatore (per esempio di distacco anche fisico tra l’esperienza del mondo di ricchi e poveri) The Running Man lo fa sottolineandola più e più volte a livello visivo, facendo in modo che i suoi protagonisti se ne lamentino, ma senza mai troppo guardarci dentro o problematizzarli. Perché gli Stati Uniti sono diventati così? Non è dato saperlo, non è chiaro se i media si siano adattati al nuovo clima o l’abbiano creato: basta sottolineare che la TV è falsa e brutta, insomma, senza troppo interrogarsi sul perché o su un per colpa di chi. Eppure qua e là il film dissemina angosce contemporanee come la manipolazione delle immagini, la falsificazione delle notizie o la distorsione dell’identità tramite intelligenza artificiale senza però trovare un ancoraggio al presente o un vero e proprio qualcosa da dire. Tanto che le incursioni nel contemporaneo (la ragazza che usa la macchina che si guida da sola e fa dirette sui social, il reality show sulla famiglia famosa e ricca che fa il verso a The Kardashian) sono bruschi sbalzi tonali che introducono perplessità più che domande, con elementi molto anni ‘80 che cozzano con una società che. scopriamo solo in seguito, è poco più avanzata tecnologicamente della nostra e basata sugli stessi presupposti culturali (social e TV d’intrattenimento di bassa lega).

Dal punto di vista spettacolare, però, il film funziona. Usa la violenza come spettacolo, è visivamente curato e pieno di ritmo. Wright costruisce un universo che guarda più agli anni ’80 che al futuro nel suo raccontare le tecnologie repressive, con una punta di nostalgia (la fotocopiatrice è una sorta di rivoluzionario strumento anarchico). Lo fa rifacendosi all’estetica eccessiva e analogica di registi come Paul Verhoeven nelle sue prime prove statunitensi, di cui non a caso Schwarzenegger è stato uno dei volti simbolo. The Running Man abbraccia il gusto per l’esagerazione, la satira e la fisicità esasperata, ma come pura dimensione visiva, laddove invece negli anni Ottanta andava di pari passo a una satira molto forte e talvolta spudorata.

La "mascolinità distopica" di The Running Man è l'elemento più interessante del film

In questo contesto, la scelta di Glen Powell come Ben Richards convince sul fronte recitativo ma al contempo depotenzia il film. Il delfino di Tom Cruise e nuovo volto in fase di rodaggio del cinema pop corn statunitense si dimostra ancora una volta efficace come eroe d’azione dopo Top Gun: Maverick e Twisters, ma è meno credibile come uomo schiacciato dalla rabbia e dalla frustrazione sociale. Il suo personaggio, che antepone la voglia di avere finalmente voce ed esprimere la propria rabbia alla salvezza della figlia, avrebbe forse richiesto un interprete più ruvido, meno espressivo nella recitazione ma con la proverbiale “faccia giusta”.

Powell rimane credibile nelle scene fisiche (con tanto di sequenza tra il comico e il fan service in cui esibisce un fisico scolpito mentre fugge vestito di un solo asciugamano ai mercenari che lo inseguono) ma è sin troppo un’eroe per incarnare una delle critiche del film, che sta proprio nella maschilità che rappresenta. E un uomo che flirta col rischio nonostante si ponga come priorità la famiglia da molto prima di partecipare al reality show che lo renderà milionario che riuscirà a sfuggire per un mese ai suoi inseguitori e agli spettatori che possono a loro volta denunciarlo per ricavarne denaro. Tra i comprimari, spiccano Colman Domingo, sornione, crudele ma anche pragmatico nei panni del conduttore in studio, e Lee Pace, che nel breve ruolo del villain del finale riesce comunque a lasciare un segno, ancor più del cattivo putativo della storia.

È nel comparare i ruoli di un cast prettamente maschile che affiora uno dei temi più interessanti del film, tra i più sviluppati a livello narrativo: la mascolinità degli oppressi che rema contro la loro voglia di giustizia. Tutti i personaggi maschili – dal protagonista al conduttore interpretato da Colman Domingo, fino all’attivista di Michael Cera – sono accomunati da una rabbia repressa e da un senso di impotenza che li spinge a reagire prettamente con la violenza. Wright si sofferma a più riprese su questo aspetto della sua distopia, mostrando uomini distrutti da un sistema che li ha resi strumenti di spettacolo o carne da audience, ma non ne sviluppa fino in fondo il potenziale. Anche i messaggi pubblicitari sono un continuo riferirsi ai genitali maschili, un’offesa e una sfida alla mascolinità dello spettatore per portarlo a candidarsi ai provini. È uno dei pochi frangenti in cui The Running Man si concede una riflessione sul ruolo e sull’immagine del maschio contemporaneo, schiacciato tra frustrazione e spettacolo di sé, che vada oltre la superficie e lo spettacolo.

Ma la parte più riuscita del film è quella ambientata nella casa del personaggio interpretato da Michael Cera, interprete da sempre molto apprezzato da Wright che con Scott Pilgrim vs. The World gli aveva già regalato uno dei suoi ruoli migliori. È nell’esplorare la vita e la villa di questa sorta di incel anarchico costretto da vivere con la mamma indottrinata dalla TV ma deciso ad aiutare Ben per trasformarlo nella scintilla della rivoluzione che emerge il miglior Edgar Wright. È anche una delle scene d’azione più belle della pellicola quella ambientata a casa sua, che combina ritmo, inventiva visiva, ironia e un’azione che un’irruzione che ricorda Mamma, ho perso l’aereo per come “usa” gli arredi in modalità offensiva e difensiva. Purtroppo, subito dopo questa parentesi, il film torna su binari più convenzionali e prevedibili.

Wright non riesce davvero a mettersi a servizio della storia, risultando distaccato

Dal punto di vista produttivo, The Running Man segna un ritorno su larga scala e abbastanza convincente per Wright dopo l’accoglienza tiepida di Last Night in Soho (2021). Con un budget stimato intorno ai cento milioni di dollari (il più costoso mai diretto da Wright), la pellicola risulta più solida delle due precedenti, ma a discapito di un’impronta meno personale nel risultato finale, che sembra un film su commissione nobilitato in parte dalla firma che vanta dietro la cinepresa. È spettacolare e curato, ma manca sfrutta fino a un certo punto la brillantezza e l’acume che hanno sempre distinto il suo regista.

È come se Wright non riuscisse a far completamente suo il materiale di King e faticasse a esprimere la sua voce e le sue idee tramite una storia altrui, magari impostagli come gettone per rimediare all’ultimo flop. Allo stesso modo Glen Powell funziona ma sembra dover remare contro un ruolo che dovrebbe ispirare nello spettatore sentimenti molto diversi da quelli del ruolo di rassicurante eroe che ormai incarna: così l’attore è chiamato di continuo a esasperare la rabbia strabordante che dovrebbe essere la cifra del personaggio. Il risultato è un film sicuramente godibile e ben girato, ma che risulta infinitamente meno incisivo nel racconto distopico di predecessori in teoria assai meno blasonati come la saga di Hunger Games. The Running Man non sa trovare gesti altrettanto iconici, meccanismi di gioco altrettanto memorabili, una singola scelta o sequenza che ci ricorderemo tra dieci e più anni. Forse però non era nemmeno interessato a farlo.