The Fabelmans, la recensione: Spielberg si confessa, tra genio, arte e un doloroso segreto familiare

di Elisa Giudici

La crisi matrimoniale tra Arnold Spielberg and Leah Adler è probabilmente uno dei divorzi più importanti e influenti del Novecento, che intere generazioni hanno visto da testimoni, assistendo ai tentativi del figlio Steven di rimettere insieme in pezzi su grande schermo. Altrove si parlerebbe la lingua della psicoanalisi: lutto, elaborazione, accettazione, catarsi. L’unica lingua che parla Spielberg è invece quella del cinema, anche e soprattutto nel suo film più intimo e autobiografico, in cui racconta non tanto come sia arrivato a diventare regista ma piuttosto quali siano stati gli eventi familiari che per decenni ha rielaborato in film divenuti classici della cinematografia americana.

Questo processo di cinematizzazione della realtà, di risoluzione e ricostruzione in linguaggio cinematografico di ciò che nella realtà è ormai diviso e rotto è talmente connaturato in Spielberg che la sua stessa autobiografia più che un racconto verità è una storia cinematografica che rielabora in maniera più esplicita del solito la sua vita personale. Lo sforzo di questo film è rendere evidente al pubblico il processo, far sentire quel momento in cui una scena fa “click” e il regista dietro la cinepresa usa lo spaventoso potere del cinema per dire una verità, suscitare un’emozione, raggiungere uno scopo.

In questo ricostruire la storia di come il matrimonio dei suoi genitori sia finito proprio mentre lui s’innamorava del cinema, Spielberg è preciso al millimetro, fornendoci persino la data del suo primo incontro con il grande schermo. È il 10 gennaio 1952, il piccolo Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle) vede in sala un film di John Ford con i suoi genitori. Nella scena che apre il film c’è già tutto quello che dobbiamo sapere. In primis l’enorme differenza tra il sentito materno e paterno, due poli opposti che formeranno la sensibilità di Sam. Il padre, geniale informatico, spiega al piccolo come funzioni esattamente la proiezione di un film, la madre, animo artistico e un grande talento da pianista messo da parte per occuparsi del matrimonio, dice a Sammy che “i film sono sogni che non si dimenticano più”.

Spielberg drogato di cinema: le scomode verità sussurrate in The Fabelmans

Colpito nel profondo da una scena del film, Sammy la ricrea in casa con la cinepresa del padre, rivedendola più e più volte, fino a smorzare la paura che gli provoca, fino a dare un senso univoco agli eventi che racconta. È tutto qui quel che che c’è da sapere sul cinema di Spielberg in fondo: The Fabelmans è la storia della sua famiglia come origine di tutto il suo grande cinema, che si rivela come un tentativo di gestire ciò che lo ha ferito da ragazzino, trasfigurandolo film dopo film, nel tentativo di sfuggire alla sua influenza, di cancellarne le conseguenze. Nel film sono presenti molteplici scene in cui vediamo nella vita di Sammy la genesi dei suoi futuri capolavori: The Fabelmans è la versione più diretta, estrema, di lasciarsi alle spalle il momento in cui la sua famiglia è andata in pezzi.

Spielberg però non ha lenti giudicanti nei confronti dei genitori, anzi: uno dei pregi della splendida sceneggiatura co-scritta con Tony Kushner è come scavi nell’animo della famiglia di Sammy cogliendone tutta l’umanità e la complessità. Spielberg è un grande regista di coming of age avventurosi, quindi non stupisce che la sia biografia sia tale: attraverso i suoi occhi innocenti vediamo il disvelamento di un segreto familiare particolarmente doloroso, che trasforma i rapporti con l’adorata madre e il padre. Spielberg omaggia entrambi mostrando pian piano quando di loro ci sia nel suo cinema, quanto entrambi, in modo differente, lo abbiano reso l’uomo e il regista che è. In questo è aiutato da due splendidi interpreti. Michelle Williams che rende con grande sentimento e delicatezza il pericoloso avvicinarsi di Mitzi, la madre del protagonista, al tracollo. Nella famiglia Fabelman infatti c’è un elemento molto curiosa che viene presentato come naturale solo perché il racconto avviene attraverso gli occhi di un ragazzo che riesce a mettere a fuoco la verità solo grazie alla cinepresa.

The Fabelmans sottolinea da subito la comunanza spirituale tra Mitzi, Sam e lo zio Boris (un cameo magistrale di Judd Hirsch): il loro temperamento artistico fa di loro dei “drogati” per cui l’espressione di un’arte (sia il piano, il cinema, il circo) è necessaria alla sopravvivenza e all’equilibrio. Boris mette in guardia Sam: seguire l’arte porta a una frattura con la famiglia, “ti strappa il cuore e ti rende solo”. Forse è per questo che The Fabelmans a tratti risulta leggero, superficiale. Questa solitudine Spielberg si rifiuta di raccontarla, così come il sacrificio che il cinema gli è costato: il film è narrato all’intero della sua poetica in cui il cinema è usato per saldare continuamente la frattura tra famiglia, vita e arte. Un altro personaggio dirà a un Sam adolescente che la vita non è come il cinema: The Fabelman però si rifiuta di accettare la verità di quest’affermazione e racconta la vita di Spielberg senza mai lasciare i confini di una forma espressiva in cui tutto ha un ordine e un senso. Ci indica però a più riprese come sia Spielberg stesso a incollare vari pezzi di pellicola, a montare le scene della sua vita dando loro un senso, mettendo a distanza il caos emotivo, il dolore.

Michelle Williams e Paul Dano sono stellari

Meno evidente ma altrettanto forte è l’influsso del padre su Spielberg. Interpretato da un ancora più grandioso Paul Dano, il padre di Sammy “uccide con la sua gentilezza”, nelle parole della moglie Mitzi. È un genio dalla mente scientifica incapace di ferire gli altri, anche lui completamente dedito al suo lavoro, devotissimo alla moglie, la cui vera comprensione degli eventi sarà al centro del discorso del film. Spielberg fa al padre forse il tributo maggiore, alludendo a come lui abbia amato il cinema quanto il genitore abbia amato la madre: senza riserve, devotamente, senza limiti. Facendo molta attenzione però è evidente come l’alter ego di Spielberg prenda moltissimo dal genitore, ma abbia realizzato questo fatto solo a posteriori. Sammy è un genio nel suo campo e forse solo il padre capisce quanto questo gli costerà in termini emotivi e umani. Non solo: Spielberg ci mostra come la sua mente sia scientifica come quella del padre nel maneggiare uno strumento potentissimo, imprevedibile e quasi pericoloso come il cinema, finendo per rivelare realtà e manipolare sentimenti, talvolta istintivamente.

La maestria di Spielberg in questo film non sta tanto nel farlo all’ennesima potenza: da ET a Prova a prendermi, ha già dimostrato più e più volte quanto possa essere potente la sua capacità di usare il cinema per parlare al pubblico, manipolandone le emozioni per ottenere un risultato. Qui Spielberg è tutt’altro che indiretto e metaforico. Con i dolly, i movimenti di camera, le citazioni al suo cinema e l’ultimo intervento esplicito nel geniale finale del film, il suo lavoro è renderci consapevoli della costruzione delle sue verità dentro uno spazio cinematografico. The Fabelmans ci dice che Spielberg non è disposto a raccontarsi al di fuori dallo stesso e questo è al contempo il principale limite e pregio del suo film più intimo. La pellicola ricorda molto Belfast di Kenneth Branagh, con la differenza che Spielberg non romanticizza né mitizza la propria storia. Anzi, fa calare un silenzio incredibile in sala nei momenti rivelatori per la famiglia Fabelmans, facendo poi ridere e piangere il pubblico. Stavolta però siamo acutamente consapevoli del fatto che stia provando a tirarci fuori le emozioni che stiamo provando.

Non è un’operazione a cuore aperto in cui un regista ci mette tra le mani il suo cuore, ci permette di stringerlo mentre ancora batte. Per questo motivo un Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar è al contempo un grande film autobiografico e uno dei suoi film più grandi, mentre The Fabelmans è un grande film autobiografico ma non uno dei migliori di Spielberg.