Scarlet, il ritorno deludente di Mamoru Hosoda spazia da Shakespeare agli Isekai
Scarlet spazia dall’Amleto ai moderni Isekai ma nel suo esasperato dolore non riesce a trovare nulla di davvero innovativo da dire.
Quando a fine luglio il direttore della Mostra del cinema Alberto Barbera ha annunciato che a Venezia sarebbe stato presentato in anteprima mondiale il nuovo lavoro di Mamoru Hosoda ha detto due cose: che lui non è un grande cultore dell’animazione giapponese ma che i suoi collaboratori gli hanno assicurato che il regista in questione, insieme ad Hayao Miyazaki e Makoto Shinkai, è una delle voci contemporanee più importante del comparto produttivo animato giapponese. La seconda affermazione è assolutamente veritiera, come testimonia una lunga serie di successi di critica e pubblico come Wolf Children e La ragazza che saltava nel tempo, passando per Belle (visto qualche anno fa al Festival di Cannes) e Mirai. La prima precisazione di Barbera invece alludeva in maniera velata a un certa perplessità di fondo del direttore della Mostra rispetto al film animato in questione, perciò mi sento di rassicurare il caro Alberto: non sei tu che non capisci gli anime, è Scarlet che davvero non è all’altezza della fama del regista.
Scarlet si muove a cavallo tra Shakespeare e gli isekai
Difficile non definirlo il peggior film di Hosoda di sempre, anche considerando i suoi primi lavori più commerciali come i film per i franchise dei Digimon e di One Piece. Scarlet infatti, a fronte delle sue enormi ambizioni tecnico-narrative messe in tavola nelle sue due ore di durata (tantissime considerando che la media animata del genere spesso rimane sotto la soglia dei cento minuti, considerando i costi e i tempi di lavorazione di queste opere) fa pochissimo e male, andando a pescare nel passato e nel presente culturali, tramutandoli in un mescolone spesso privo di senso.
Il primo riferimento del film è l’Amleto di William Shakespeare, ma in chiave femminile: sul finire del XVI secolo la protagonista infatti è la figlia del re di Danimarca, che viene tradito e ucciso dal fratello Claudio che punta a rubargli la corona. Traumatizzata, la giovane Scarlet giura vendetta e si allena fino a diventare una spietata guerriera, decisa a vendicare la morte del padre. Qualcosa però va storto e Claudio a sorpresa riesce a toglierla di mezzo prima che possa compiere la sua vendetta, avvelenandola. Qui non possono che venire in mente gli isekai, genere di grande fortuna negli ultimi anni il cui presupposto è proprio la morte del protaogonista nel suo mondo d’origine e l’approdo in un’altra realtà governata da regole differenti, dove reinventarsi.
Scarlet finisce in uno strano aldilà che non è proprio proprio né il paradiso ma nemmeno l’inferno, dove ci sono draghi potentissimi e dove gli abitanti che vengono da varie epoche sembrano “bloccati” nel tempo. In questo aldilà si può morire, di nuovo, scomparendo definitivamente (o almeno, dato il tedio generato dal film, questo è il nostro auspicio per loro). Qui Scarlet incontra Hijiri, un paramedico giapponese gentile e premuroso proveniente dal presente che non ricorda esattamente come sia finito in quel mondo. I due inizialmente faticano a comprendersi, un po’ per la profonda diversità delle epoche da cui provengono, un po’ perché lui è l’opposto speculare di lei a livello caratteriale: tanto lei è prona alla rabbia, all’attacco e all’offesa, tanto lui è calmo, pacato, pronto a curare gli altri.
Scarlet è una grossa delusione per i fan di Hosoda, qui al suo peggio
Ne segue un lunghissimo peregrinare in questo mondo la cui coerenza logica va scemando ad ogni nuovo angolo viene esplorato. Claudio finisce anche lui in questa realtà con i suoi scagnozzi e decide di precludere a tutti l’eternità, per tenerla solo per sé. Non si capisce ancora una volta sulla base di cosa, come o perché, dato che nessuno di coloro che sono appena arrivati in questo mondo ha risposte precise sulle sue dinamiche (e, sospetto, nemmeno lo stesso Hosoda). Il tutto è una comoda scusa per ricalare i panni dell’eroina combattente su Scarlet e rimandare ancora di un po’ la sua presa di consapevolezza terapeutica che la vendetta non le porterà sollievo né migliorerà il mondo.
Consapevolezza che, per nessuno motivo preciso, maturerà in una parentesi in cui in un sogno viene spedita in una versione giapponese di La La Land dove balla per strada felice con Hijiri senza nessun motivo apparente. Al risveglio, decide di darci un taglio con i capelli lunghi e la vendetta, ispirata proprio al suo look in questo passaggio.
Non c’è modo delicato di dirlo: Scarlet è un pasticcio che trasforma la sua ambizione in confusione e i capisaldi tematici di Hosoda (il miscuglio di linee temporali, i rapporti tra personaggi che evolvono in direzioni complesse e inattese) nella loro peggiore incarnazione di sempre. A infastidire poi è come calchi inutilmente la mano sul dramma e sul trauma, facendo urlare a squarciagola e piangere a dirotto la povera protagonista, con una rabbia e un livore che poi coronano puntualmente in un nulla di fatto.
Imbarazzante è poi la risoluzione antibellica finale: non certo nel messaggio (comunque di un semplicità disarmante) ma nel doppio presupposto che quella presente sia un’epoca ideale senza guerre (che pessimo tempismo Hosoda!) e che la soluzione per un mondo più giusto sia una sovrana illuminata. D’altronde è forse inutile aspettarsi un ardito salto filosofico da un film che non riesce nemmeno a presentare personaggi in teoria meno adolescenziali anagraficamente ma poi li fa muovere con atteggiamenti davvero bambineschi.
Dulcis in fundo, l’animazione è tutt’altro che eccelsa. Se è oggettivamente impressionante come siano state realizzate e gestite le scene di folla in cui migliaia di personaggi si muovono in maniera complessa e indipendente sullo schermo, c’è qualcosa nei movimenti del volto dei protagonisti e dei loro corpi d’innaturale, robotico. L’impressione è che si sia sperimentato qualche nuovo software che prometteva una grande fluidità di movimenti in sequenze come quella della danza per le strade del Giappone contemporaneo e che invece è finito nel territorio dell’uncanny valley. Per altro con l’aggravante del fatto che c’è un chiarissimo salto tra scene che fanno utilizzo di queste risorse aggiuntive e scene animate “normalmente”.