Poker Face, recensione: Russell Crowe, rassegnati: non sei più un asso pigliatutto

di Elisa Giudici

Con Poker Face Russell Crowe torna dietro la cinepresa come regista, dopo il suo esordio nel ruolo con The Water Diviner (2014). Sfortunatamente per lui e per gli spettatori, la star premio Oscar de Il gladiatore e A Beautiful Mind chiede davvero troppo a sé stesso, impegnandosi nella triplice veste di regista, sceneggiatore e attore nel ruolo principale. Il risultato è Poker Film, un film dimenticabile dalle scelte bizzarre, che vorrebbe essere un thriller ma più che altro disorienta lo spettatore, mandandogli segnali contrastanti.

Poker Face non è davvero interessato al gioco d’azzardo

Contraddittorio, a partire dal titolo e dalla locandina: sulla carta Poker Face dovrebbe avere al centro il gioco d’azzardo e partite di carte in cui il punto è non far scoprire agli altri il proprio bluff. A differenza di prove recenti in questo senso come Molly’s Game e Il collezionista di carte, ovvero due ottime pellicole che esploravano il carattere, la psiche e il vissuto dei rispettivi protagonisti proprio a partire dal loro lavoro nel mondo del gioco d’azzardo, Poker Face non si dimostra poi così interessato a fiches, carte da gioco e puntate stellari. Anzi: nella seconda metà del film il tavolo verde viene messo completamente da parte per occuparsi di altro.

Di poker quindi se ne vede e se ne gioca pochissimo e non aiuta quasi per nulla a capire la vera essenza del personaggio interpretato da Crowe. Un po’ giocatore perfetto, un po’ milionario recluso, un po’ amico manipolatore e con manie d’onnipotenza, il personaggio di Jake Foley è più raccontato dalle chiacchiere dei suoi amici e dalla rievocazione delle sue passate imprese, dalla sua ostentatissima ricchezza e dalla sua quasi onnipotenza nel reperimento d’informazioni, più che da quanto fa e dice nel film.

Dal tavolo verde alla rapina: Poker Face non ha le idee chiare

Pellicola che si apre con una partita a poker tra adolescenti, che poi si ritrovano qualche decennio più tardi per una rivincita milionaria organizzata proprio da Jake, che non li ha mai persi di vista e sembra saperla lunga su quanto hanno combinato e su cosa stanno passando. Quella che in apparenza sembra una vendetta, un regolamento di conti o quantomeno una rivincita diventa però all’improvviso un thriller con rapina nella villa milionaria del protagonista, con tanto di ostaggi e stalli alla messicana.

Cosa voleva essere esattamente Poker Face? Non è chiaro. La colpa va attribuita proprio a Russell Crowe, che più che risultare criptico e indecifrabile come un vero giocatore dal volto che cela le emozioni, gigioneggia nel ruolo di un personaggio che stringi stringi si rivela un santo moralmente ineccepibile. Pensando alle performance di Jessica Chastain e di Oscar Isaac nei film precedentemente menzionati viene da chiedersi perché Crowe - che qui certo non brilla per doti recitative - non abbia lasciato spazio a un collega nel ruolo di Jake.

Insomma, sarebbe stato meglio se si fosse totalmente dedicato alla regia del suo secondo film, dato che tutto sommato non se la cava nemmeno troppo male nel ruolo. Pur senza punte d’eccellenza, Poker Face riesce dare un certo ritmo alla vicenda e, quando necessario, a far montare un po’ di tensione. Peccato che i passaggi migliori vengano spesso interrotti da primi piani di Crowe, alle prese con battute nemmeno troppo memorabili e con uno sviluppo di trama che lo spinge ad agire che abbiamo visto già tantissime volte al cinema. Sviluppata in questo modo, la malattia del protagonista è poco più di un pretesto per innescare la catena di eventi che porta tutti i protagonisti - gli amici, i nemici e i potenziali assalitori di Jane - nella villa dove si svolge il film.

Certo anche la sceneggiatura, con i suoi repentini e dissonanti cambi di direzione e di genere (è un film sul poker, una pellicola drammatica, una rapina dei toni thriller o un film d’azione?) non aiuta, ma niente che non si potesse risolvere con un po’ di lavoro di limatura. Poker Face poteva essere un onesto film d’intrattenimento per chi ama il thriller dritto al punto e senza troppe complicazioni, persino un po’ ruvido. Invece soccombe all’egoismo del suo protagonista e a scelte assurde e che davvero affossano il film, come per esempio quella di ricoprire il povero Liam Hemsworth con un spesso strato di trucco prostetico, nel penoso tentativo di renderlo credibile come coetaneo di Russell Crowe, quando Hemsworth ha la metà dei suoi anni.