La grazia: al Quirinale Sorrentino ritrova la sua leggerezza perduta
Sorrentino sale al Colle e trasforma Toni Servillo in un Presidente della repubblica che somiglia un po’ a lui, un po’ a Mattarella e molto al suo cinema.
La vera sorpresa di La grazia è come Paolo Sorrentino e la sua squadra siano riusciti fino all’ultimo a tenere coperte le carte rispetto al tema del film, cogliendo tutta la stampa veneziana di sorpresa. Per uno come lui che ha già sotto la cintura due tre film su presidenti del consiglio (i due Loro su Berlusconi e Il divo su Andreotti) e due pontefici fittizi con The Young Pope d’altronde forse il Quirinale era il passo successivo e naturale. Tuttavia considerando le location istituzionali coinvolte (il cortile dove si accolgono i funzionari stranieri, le stanze al Colle, ma anche il Teatro alla Scala per una prima dal palco presidenziale) e la preziosa consulenza di un quirinalista doc come Giovanni Grasso (ringraziato nei titoli di coda per la consulenza) rimane comunque sorprendente come si sia entrati in sala senza sapere che Toni Servillo stavolta avrebbe interpretato un presidente a metà strada tra Jep Gambardella e Sergio Mattarella.
Com'è il Presidente di Servillo
Amatissimo dalla popolazione, apprezzato dalle istituzioni per aver scongiurato ben sei crisi di governo, Mariano De Santis è un esimio giurista il cui settennato è appena entrato nel semestre bianco. La biografia personale lo racconta come esule in gioventù da Napoli (come Sorrentino) e vedovo al Quirinale, assistito dalla figlia Dorotea (Anna Ferzetti) che gli va da assistente giurista, consulente e anche dietista. Oltre alla vedovanza, a ricordare Mattarella a molti è stato il passato democristiano del personaggio, il suo modo di fare ingessato e molto aderente ai rituali del ruolo, anche se poi ovviamente condito da qualche nota di spirito.
Nella sostanza il presidente è innanzitutto un personaggio di Sorrentino, definito da una ferita d’amore e dal bisogno di non essere dimenticato dalla donna della sua vita. Aurora, “la donna perfetta per lui”, la moglie scomparsa, è al centro dei suoi pensieri quando fuma la sua sigaretta dal terrazzino del palazzo, quando ne esplora il guardaroba parlando al telefono con la direttrice di Vogue. Nei filari piemontesi, immersa nella nebbia, la giovane Aurora gli rapisce il cuore da ragazzo. Poi però glielo spezza, tradendolo e confessando le corna, ma senza mai rivelargli con chi. Così De Santis, soprannominato cemento armato per la sua prudenza democristiana e per il continuo bisogno di “ulteriore tempo di riflessione” rimane fermo nella sua gelosia, nel suo dubitare che l’amico e probabile successore al Colle possa esserne stato l’amante.
Cos'è la grazia per Paolo Sorrentino
La Grazia dunque è l’ennesima rielaborazione del tema dell’amore sorrentiniano, che colpisce al cuore in gioventù e influenza tutta la vita. Un’amore che una volta tanto è compiuto, felice, ma attraversato dall’ombra del tradimento. Rispetto allo struggimento di Parthenope e di La grande bellezza, in cui l’amore è innanzitutto incompiuto, La grazia è un film più leggero, in pace con sé stesso, sin dal titolo, interpretabile in più accezioni. La prima è quella della “leggerezza del dubbio”, del prendere la vita con la consapevolezza che di verità ne conosciamo poche e per giunta sono pronte a sgretolarsi, in campo giuridico e umano. La seconda accezione è politica: mentre valuta se firmare o meno una legge sull’eutanasia, il protagonista vede presentarsi due richieste di grazia da parte di due detenuti rei confessi di omicidi che sono, ancora una volta, riflessioni sull’amore. Per Sorrentino chi non lo prova è uno sciocco e non può capire perché chi ama davvero non può sfuggire, nemmeno di fronte al dolore e alla violenza.
A corollario di questa tenera maliconia amorosa fatta di quinoa e soglie sogliole al vapore per cena, dell’assopirsi mentre si prega e della quieta consapevolezza di essere “l’argomento più noioso del mondo di conversazione”, c’è tutto il mondo quirinalizio, fatto di corazzieri tutto fare capaci di scovare canzoni poco note o estrarre l’antizanzara al momento giusto, un segretario con cui non si va d’accordo ma si ha l’eleganza di non farlo sapere in pubblico, uno staff dedicato e affezionato. Sorrentino ci tiene a portare il pubblico con sé, creando qualche tormentone comico, inserendo il rutilante personaggio di Coco Valori, una spumeggiante Milvia Marigliano con delle micidiali one liner e la parolaccia sempre a fior di labbra. Coco è un'amica di gioventù del presidente, una critica d’arte che ricorda Mara Maionchi che strappazza Servillo (e meriterebbe uno spin off dedicato). Quando lui le dice “confesso che…” lei lo zittisce e replica “lui è un grande cattolico: non parla, confessa”.
Un’altra ottima notizia è che Sorrentino indulge in minima parte nelle sue “sorrentinate”, in quelle scene bizzarre e surreali che ama molto ma che spesso spezzano la tensione narrativa (e non in meglio) dei suoi film. Si concede un nuovo pontefice che tenta di convincere De Santis a non firmare la legge sull'eutanasia, professandosi suo amico. Stavolta il Papa di Sorrentino è nero e coi rasta, interpretato con divertita solennità da Rufin Doh Zeyenouin. Tra tanti caratteristi con personaggi così sopra le righe e molto sorrentiniani tra le mani, è Anna Ferzetti nei panni della figlia del protagonista a venire tradita da un ruolo un po’ incolore nel suo essere ora bacchettone, ora appassionato, sempre nel modo più monocorde possibile.
Il quirinale insomma non è il punto, non è l’iconoclastico raccontare le istituzioni italiane de Il Divo o Loro: è uno scenario che si presta bene al gusto e alle atmosfere del cinema del regista, in cui mettere in scena le sue ossessioni in maniera più leggera e divertita del solito. Rispetto a Parthenope per esempio c’è meno ossessione rispetto alla morte, al suo essere ineludibile. Pur spendendo molte scene a parlare di eutanasia, a chiedersi se sia meglio dire sì e diventare assassino o dire no e rimanere torturatori, Sorrentino di ricorda che il nostro tempo è innanzitutto nostro, anche se a volte serve un'intera vita per capirlo. Stavolta dunque quando si parla di aldilà viene detto che è “un’espressione bellissima”.
C’è anche molta Italia, come dicevano un tempo i colleghi, in un range che va dal puro istituzionale (le frecce tricolori, i cori alpini, la bandiera che sfuma la scena) all’irriverente e contemporaneo (Servillo che reppa “Le bimbe piangono” di Gué Pequeno e Shablo, che hanno un cameo nel film), per un film che è, se non proprio speranzoso, almeno convinto che aspettando l’inevitabile ci possiamo divertire un po’.