Il maestro è l'ennesimo bel film sul tennis che in realtà parla d'altro
Dopo L’ultima notte d’amore, il duo Di Stefano Favino si riconferma uno dei sodalizi più efficaci del cinema italiano contemporaneo.
Se il tennis è una metafora della vita, quello giocato in Il maestro di Andrea Di Stefano ne racconta una lontana mille miglia dall’alta borghesia sportiva, glamour e vincente di Challengers di Luca Guadagnino e degli attuali campioni nostrani giovani, belli e nell’olimpo del ranking mondiale di questo sport. D’altronde, proprio come Guadagnino, Di Stefano è interessato fino a un certo punto al tennis in quanto gesto sportivo: lo preferisce come punto di partenza e cornice di un racconto di paternità e disillusioni che ha come riferimento imprescindibile la commedia italiana vecchia scuola.
Storia di due perdenti
I protagonisti de Il maestro infatti vivono ai margini del mondo professionistico del tennis, appena rischiarati dalle luci della ribalta: il piccolo Felice (Tiziano Menichelli) perché ha appena conquistato il diritto di giocare in giro per i circuiti italiani, l’ex campione Raoul (Pierfrancesco Favino) perché pur privo di motivazioni, ha trovato il modo di vivacchiare in un ambiente ormai familiare, sfruttando le illusioni di persone come il padre del suo pupillo Pietro (Giovanni Ludeno). Felice infatti è un campioncino locale tirato su dal padre allenatore la cui passione per il tennis rivaleggia solo con l’idea di rivalsa sociale con cui allena il figlio. Negli Stati Uniti da una premessa così tirano fuori Una famiglia vincente - King Richard, il biopic del padre delle sorelle Williams con un Will Smith contrito e intenso che tira su ben due campionesse. Invece in Italia se ne ricava la storia di due perdenti che spendendo un’estate assieme esplorando lo Stivale un campetto alla volta, scoprendo il reciproco fallimento, un passo falso alla volta.
Il tennis dunque può essere anche metafora di un carattere nazionale e, proprio come nella commedia all’italiana più dolce-amara, Il maestro racconta l’italianità con la tipica malinconia sorniona di chi sa arrangiarsi sempre, ma qua e là soffre della mancanza di grandezza di visione e scopi che questo approccio comporta. Cialtrone e cascamorto, Raoul deve vivere con la consapevolezza di avere avuto un discreto potenziale sportivo che non ha sfruttato fino in fondo e convivere con una fragilità personale che gli fa ancora più paura. Felice invece è così giovane che quando il padre lo affida alle cure del nuovo maestro affinché giri l’Italia e partecipi ai tornei junior, deve ancora scoprire il mondo, sé stesso e la sua fallacità.
Paternità e fallimenti anni ‘80
Nei fatti Di Stefano intesse un road movie che parla di sport e paternità, ma soprattutto della frattura tra aspirazioni e traguardi raggiunti, che diversamente da quanto ci aspettiamo riguarda anche i giovanissimi. Non si è mai troppo piccoli per realizzare di non essere all’altezza delle proprie aspettative, sembra suggerire Di Stefano, in una commedia che qua e là sa essere pungente, oltre che ricca di rimpianto. Quello di Raoul, certo, il cui approccio sornione, provolone e un po’ truffaldino è splendidamente mescolato a una malinconia di fondo ben ritratta da un Favino davvero perfetto per il ruolo, un po’ Panattiano e un po’ dolente.
C’è anche però una sorta di nostalgico guardare a un’epoca d’oro ormai passata nel film: quella degli anni Ottanta. Nonostante qualche passaggio un po’ corto di realismo, Il maestro è un film che sorprendente per la descrizione di un’epoca a cui guarda con malinconia e rimpianto sì, ma senza mai romanticizzarla. Di Stefano infatti racconta degli Ottanta italiani che sono il trionfo della provincia piccola nell’ambizione e nei risultati, forse solo grande nell’ingenuità, che spesso si sposa a un fatalismo di fondo. Il glamour e la spensieratezza del decennio sono nell’aria, ma come una brezza lontana di una grandezza altrui che si scontra con la buona volontà e i limiti di campetti diroccati, tornei semi amatoriali e abitanti della provincia italiana da cui, non a caso, viene proprio Felice.
Tutto nel ragazzino racconta dell’amore immenso ma mal espresso che il padre ha nei suoi confronti, dal marsupio al sacchetto trasparente pieno di gettoni per telefonare a casa fino ai quadernetti con tutte le tattiche e codici per comunicare con l’allenatore trascritti con cura. È un’Italia patriarcale, divisa in classi e ricca di frustrazioni quella raccontata con piglio ironico e una certa tenerezza da Di Stefano, in cui a tenere insieme le figure paterne che popolano il film è l’inadeguatezza di fondo: l’affetto c’è ma si traduce in presenze troppo ingombranti e assenze a cui è difficile rimediare. Di Stefano però in fondo tifa per i suoi perdenti allo sbaraglio, senza piegare la realtà in guisa di una facile via d’uscita per i loro errori. Il risultato è un film condotto splendidamente dai suoi tre protagonisti maschili (compreso il giovanissimo Tiziano Menichelli), impreziosito dal divertito cameo di Tiziano Menichelli. Regia e lato tecnico sono ben curati e a servizio di una storia che funziona quasi sempre, condotta di testa ma non senza cuore.