Per colpa di Duse, anche stavolta il film più brutto del concorso veneziano rischia di essere italiano

Marcello porta per la prima volta su grande schermo la più grande attrice della storia teatrale italiana, una figura chiave a cavallo tra cultura e storia: di buono però in Duse ci sono solo le intenzioni.

di Elisa Giudici

La vita di Eleonora Duse, figura leggendaria e “divina” della scena culturale italiana ed europea d’inizio Novecento, è stata un succedersi di trionfi e clamorosi fallimenti professionali. La più grande attrice teatrale italiana di tutti i tempi, amatissima del pubblico e dalla critica, ebbe la sua fetta di fiaschi personali e professionali, la cui memoria è ormai quasi perduta, così come la sua voce. Di Eleonora Duse infatti esiste qualche foto, un filmino d’epoca ma nessuna traccia della sua vocalità e della sua arte teatrale così effimera per sua stesso natura. Oggigiorno rimane una traccia che va attenuandosi solo dell’effetto che quell'arte ebbe sulla sua epoca.

Impatto che, nel tempo, è stato in buona parte oscurato dall’ombra lunga del vate Gabriele D’Annunzio e della relazione sentimentale intercorsa tra i due. Impatto che il film biografico di Pietro Marcello prova a raccontare, portando per la prima volta su grande schermo le contraddizioni, i dolori e i talenti della divina, filtrati attraverso il suo canto del cigno. Quella raccontata da Marcello infatti è una Duse già famosissima, già ritiratasi dalle scene da anni, già fiaccata dalla tubercolosi che le colonizza i polmoni. La pellicola segue il suo girovagare per l’Italia e i suoi teatri tra il 1917 e il 1923, quasi all’indomani dello sforzo bellico e all’inizio del ventennio fascista l’attrice decide di tornare sulle scene.

Pietro Marcello incappa in un sonoro fiasco con Duse

Sfortunatamente di buone ci sono solo le intenzioni: Duse è un cocente fiasco, come la tragedia su Ecuba scritta dal protetto della protagonista e interrotta nella sua tournée dopo la prima chiusa tra fischi, schiamazzi e insulti. In un’annata in cui il cinema italiano in Mostra ha dunque stupito per la qualità che ha espresso in concorso e nelle sezioni collaterali, Duse rischia di riportare in casa il triste primato del film peggiore della competizione.

È un fallimento nettissimo, senza appello, che lascia sgomenti soprattutto gli estimatori del cinema di Pietro Marcello, qui francamente irriconoscibile. Dov’è finito il cineasta misurato nell’emozione, sintetico ed efficace nell’esecuzione, capace di dire tantissimo anche con dialoghi scarni e immagini evocative che tanto avevamo amato in Martin Eden? Difficile dirlo di fronte alla convenzionalità registica di Duse, che dopo un avvio promettente si piega via via a un modo sempre più convenzionale di raccontare una storia biografica, con qua e là solo sporadici sprazzi della sensibilità visiva del suo autore. Una regia che fatica a esaltare una produzione di tutto rispetto, con il coinvolgimento di maestranze di alto livello che hanno lavorato sulla base di una ricerca storica minuziosa e palpabile su schermo. Meritano un plauso i costumi treatrali e quotidiani di Ursula Patzak, figli di un attento studio d’archivio dei bozzetti originali del guardaroba di Duse. Proprio perché Duse per ambientazioni, scenografie, fotografia e musiche è tanto ricercato, stupisce e molto la grana grossa della sua narrazione.

Sono ben tre gli autori della sceneggiatura: Letizia Russo Guido Silei e Pietro Marcello stesso. Pur riconoscendo loro la difficoltà di rendere naturale e facilmente fruibile per il pubblico contemporaneo una storia  risalente a un’epoca dal linguaggio molto carico, enfatico e adorno (ovvero dannunziano), lo script del film è l’origine di molti dei suoi problemi. La struttura convenzionale della storia la rende di per sé molto prevedibile e la sua scrittura fatica a raccontare la straordinarietà di Duse. Il tutto poi aggravato da una serie di battute molto enfatiche e davvero infelicissime, che “girano” male e naufragano ben presto nel territorio dello scult.

Valeria Bruni Tedeschi nei panni di Eleonora Duse ricade in tutti i suoi peggiori tic

Pochi mesi fa elogiavo Valeria Bruni Tedeschi per come in L’arte della Gioia fosse riuscita ad avere grande forza drammatica sotto la guida di Valeria Golino, senza scadere in una certa enfasi che le è propria. Nel ruolo di Duse ricade nei suoi peggiori tic, condannando senza appello il film. Non smette mai di essere Valeria Bruni Tedeschi, non diventa mai Eleonora Duse, portandosi anzi dietro quelle reazioni, quell’emotività, quel modo di gesticolare e reagire che davvero distrugge ogni pretesa di sospensione dell’incredulità, di realismo. Quella che vediamo è palesemente una Bruni Tedeschi che indulge nelle sue derive peggiori, tutta espressioni facciali buffe o marcate, con un modo di parlare tanto cadenzato ed enfatico da risultare irritante.

Quel che è peggio è che buona parte della compagine maschile le va dietro, con quest’insopportabile attitudine a caricare di dramma ogni singola battuta. L’unica a uscirne davvero bene è una Noémie Merlant semplicemente straordinaria. Nel ruolo della figlia di Duse, Enrichetta, ugualmente amata e trascurata dalla madre in un rapporto genitore figlia complicatissimo, l’attrice francese è ficcante e intensa pur senza calcare la mano, anzi con un approccio molto sobrio, quasi trattenuto. Il che è impressionante considerando che recita in una lingua non sua, l’italiano, con grande naturalezza e perfetta cadenza.

Insomma, è andata ancora una volta è andata molto meglio a Gabriele d’Annunzio, che qualche anno fa venne raccontato esattamente con lo stesso approccio, con la stessa cornice (l’età avanzata, la malattia, l’irrilevanza crescente sulla scena pubblica con l’ascesa di Mussolini) nel ben più convincente Il cattivo poeta di Gianluca Jodice. Marcello invece scade spesso nel convenzionale, nel retorico, mancando proprio di raccontarci ciò che sulla carta dovrebbe portarci a rivalutare l’importanza, l’indipendenza e l’essere enormemente in anticipo su tempi della sua protagonista. Tratti che il film manca completamente d’illustrare, faticando a mettere insieme il ritratto di una donna famosa, avanti con l’età e ricca di contraddizioni.