Il Dracula di Luc Besson non potrebbe essere più bessoniano di così

L’ennesima collaborazione tra Caleb Landry Jones e Luc Besson è un film vampiresco in cui il regista francese riesce a creare una versione del mostro molto personale, in pregi e difetti.

di Elisa Giudici

Dopo il Nosferatu di Robert Eggers e il pastiche autoriale di Radu Jude visto a Locarno, quello di Luc Besson è il terzo Dracula cinematografico che segna il 2025, segno che il personaggio continua ad affascinare i cineasti di oggi, pur essendo stato reinterpretato talmente tante volte che è difficile trovare qualcosa di personale e nuovo da dire in merito.

Luc Besson non sfugge del tutto dall’accusa che il suo Dracula: L’amore perduto non abbia nulla di davvero fresco da proporre al pubblico, ma al contempo è una prova così radicata nel gusto e nelle attitudini del suo cineasta da scampare quantomeno l’accusa di essere una pellicola blanda e senza sapore. Anzi, proprio il fatto che Luc Besson sia rimasto così tenacemente radicato nell’approccio cinematografico che aveva nel pieno degli anni ‘90, all’apice della propria carriera, rende questo Dracula molto godibile in quanto film vecchia scuola.

Il rinnegato Besson continua a fare film a sua immagine e somiglianza

Besson insomma - un po’ come il suo protagonista - ha rinnegato un mondo del cinema da cui non si sente pienamente capito e, incurante degli scandali che circondano la sua persona, continua a fare film seguendo il proprio gusto personale. Così il suo Dracula, sin dalle primissime scene, è lontano anni luce dall’approccio contemporaneo e, proprio per questo motivo, è un po’ un ritorno a casa per chi l’apice della carriera di Besson l’ha vissuto in sala.

Nella visione bessoniana, Dracula è malato di un’amore tormentato, assoluto e davvero ossessivo per l’amata principessa che lo ricambia, almeno fino alla di lei tragica morte. Quasi con mossa provocatrice il film si apre con il principe di Transilvania che deve essere letteralmente staccato dalla bocca della sua nobildonna per indossare l’armatura di drago e andare a ricacciare gli Ottomanni infedeli da dove sono venuti. Qui Besson sfrutta tutta la forza di un modo di fare cinema molto visivo, molto incentrato sul colore e sulla rappresentazione più che sul realismo, che lo fanno somigliare ora al capolavoro di Coppola (a cui guarda continuamente come ispirazione) ora a registi contemporanei che hanno questo approccio molto legato ai linguaggi della fiaba.

Quindi il punto di questo Dracula non è un racconto antropologico come in Eggers o una resa iperrealistica, bensì un principe che corre dalla sua principessa il cui lungo velo violetto svolazza sulla neve bianca mentre cavalca la sua giumenta cercando di scappare dalle grinfie dei cattivi. C’è anche un tocco molto francese e molto provocatore in come Besson metta al centro l’inestinguibile sete di sesso dei due, che si trasforma solo molto dopo in sete di sangue del principe, dopo aver rinnegato Dio e la Chiesa ed essere stato privato della possibilità di morire da un piano divino che esiste e agisce ai margini del film.

Il Dracula di Besson è il principe di un gran spettacolo

Besson qui però non è interessato a usare i vampiri come metafora di qualcosa se non come del proxy della sua voglia di fare cinema nel senso di spettacolo: il suo Dracula è in tutto e per tutto un blockbuster con tante comparse, costumi sfarzosi, un uso tutto sommato sorprendente degli effetti speciali (penso ai Gargoyle quasi disneyani del suo castello) e un sapiente connubio di melodramma e commedia. Nonostante si crogioli nella disperazione per la perdita dell’amata, il Dracula di Besson è una creatura che ama sedurre e gode dei piaceri della vita, tra i quali si fanno notare un senso del sarcasmo e delle battutine a doppio senso rispetto alla sua condizione mostruosa particolarmente spiccati.

Come già avvenuto in Dogman, Besson sembra avere particolare sintonia con Caleb Landry Jones e sembra amare particolarmente spingerlo in territori kitsch quando non camp. Invecchiato, con la parruccona bianca e la vestaglia scarlatta sembra quasi un’imitazione grottesca del Dracula dI Coppola, che già talvolta era molto sopra le righe. Quando il film è smaccatamente eccessivo, Jones riesce miracolosamente a tenerlo comunque in piedi, magari spingendo la sua interpretazione quasi in territori drag e farseschi.

È lui a far funzionare le battute più esagerate del film, a trovare la chiave per rendere divertenti i reiterati tentativi di suicidio di Dracula quando comincia a capire che Dio gli ha negato la morte per punizione. Nonostante Besson lo spinga continuamente a un difficile confronto on Gary Oldman, Jones riesce a scavarsi un Dracula suo, fatalista, arrapato e divertente, confermando le sue ottime doti interpretative. A sorpresa a uscire molto bene da questa fiera dell’eccesso è Matilda De Angelis, nei panni di una pseudo Carmilla chiassosa e ammiccante, che risulta ben amalgamata al tono della pellicola, non sfigurando nei confronti con Christoph Waltz nei panni del prete cacciatore di vampiri sulle tracce di Jones. Purtroppo non si può dire lo stesso del resto del cast, talvolta più incisivo per avvenenza che per doti interpretative.

È solo uno dei tanti dettagli che rimanda, appunto, a certe priorità e convenzioni stilistiche degli anni ‘90, da cui Besson prende ed esalta tutto il meglio: la sua capacità di dirigere scene d’azione, il dare fuoco davvero alle cose per davvero, senza utilizzare i mestissimi trucchetti digitali per farlo. Le fiamme e le spade sul campo di battaglia, raccontate da una cinepresa dinamica e carismatica, danno quel brivido di spettacolarità che un po’ la battaglia te la fa respirare davvero.

Questo Dracula insomma è un melodrammone sorprendentemente divertito che fa del suo non dire no a nulla una cifra silistica: famelico, si divora tutto, facendo dell’eccesso tonale e contenutistico la sua cifra. Ci sono i vampiri nella Transilvania ma anche a Versailles, ci sono i mostri circensi e le coreografie in costume, passaggi espliciti e sequenze dal sapore davvero molto disneyano, tanto che il dolore del suo protagonista per la perdita dell’amata non è mai drammatico o triste, ma funzionale alla trama, teatrale, esagerato.

Sfarzoso, caciarone e con un gusto spiccatissimo per l’orpello eccessivo (gustossima nella sua inutilità la scena con le monache, davvero una mossa sfrontata e deliziosa nella sua smaccata gratuità), Dracula di Besson è la prova non richiesta che il regista francese sa fare benissimo quel per cui è diventato famoso ma non ha intenzione di spostarsi di un millimetro rispetto al un certo modo di fare cinema ormai datato.

Rimane l’intrigante quesito di decidere questo datato sia poi così superato, perché l’evoluzione per alcuni versi è stata un’involuzione: laddove i film d’intrattenimento di oggi spesso soffrono a livello visivo o di ritmo perché alcune consuetudini non si sono rivelate poi migliorative a livello qualitativo, Besson ricorda molto puntualmente (e con una punta di sadismo) che certe volte la vecchia via dà ancora il risultato migliore.