Avatar - fuoco e cenere brucia le ultime tracce di quanto rimaneva di entusiasmante della saga

Tra intrecci convenzionali, personaggi schiacciati sugli stereotipi e un militarismo che tradisce le premesse della saga, il ritorno su Pandora si rivela un’esperienza stanca e priva di vera urgenza narrativa.

di Elisa Giudici

Quindici anni fa arrivava nelle sale il primo Avatar e ci immergeva nel pianeta alieno di Pandora, abitato dai Na’vi. Non sembra che ce ne siamo mai andati da allora: dalle primissime scene di Fuoco e cenere c’è un senso di profonda familiarità nel tornare ad aggirarsi tra le sue acque cristalline, nel fitto della sua vegetazione. Dovrebbe essere la prova di quanto questa saga sia entrata nel nostro immaginario collettivo, di come il nostro cervello ne abbia assorbito a fondo ambientazioni e atmosfere. Invece è l’inizio di questa stroncatura senza appello di un film che punta proprio ad attirare lo spettatore con il trucco meno ambizioso e più sconfortante di tutti: ridargli esattamente la stessa cosa dei primi due capitoli, con appena una guarnizione in più per fingere un qualche tipo di novità.

Una Pandora ormai priva di meraviglia

A colpire infatti in Avatar: Fuoco e cenere è l’estrema, mortificante convenzionalità dell’intreccio e della narrazione. Che l’immaginario di Cameron sia da sempre molto spartano e retorico, puntando sulla semplicità narrativa di alcuni topoi classici dell’esplorazione spaziale uniti al conflitto tra culture differenti, esplorato attraverso una storia d’amore, è un dato di fatto. L’immediatezza della storia però inizialmente era funzionale all’impatto tecnico, alla dimensione visiva senza precedenti del primo capitolo, vissuto con gli occhialini 3D in sala. Il progresso tecnologico nei capitoli successivi ha raffinato quanto fatto nel primo, senza però fornire ulteriori salti così visibili e impattanti. A questo punto, dunque, a puntellare i film della saga dovrebbe essere la storia, finalmente liberata dall’impiccio di spiegarci chi abiti il pianeta e come funzionino le relazioni tra umani e alieni.

Invece nel 2025 siamo ancora qui ad assistere allo scontro tra Na’vi buoni traumatizzati e umani mercenari inutilmente crudeli e sadici. Anzi, per strada è scomparsa la pressione di un’umanità disperata nel tentativo di salvare il proprio pianeta e reperire risorse, quella schiacciante urgenza che spiegava e problematizzava le scelte più feroci degli umani, qui trasformatisi in un branco di zombie con telefonini appena più tecnologici dei nostri, ossessionati da un militarismo spiccio e muscolare, nemmeno così ben inserito nella storia.

L’unico aspetto davvero affascinante di questo film è come Cameron provi ad anticipare alcune svolte imminenti della tecnologia attuale: si percepisce chiaramente la sua curiosità di fresco miliardario amante dello stato dell’arte tecnologico quando inquadra esoscheletri e immagina cellulari trasparenti e sale operative fatte di ologrammi e schermi smaterializzati.

Peccato che nel resto del film non ci sia davvero nulla di altrettanto vivace a livello immaginifico, se non in chiave trash. A partire dall’avvio: chi scrive ha visto il film in lingua originale, il che ha consentito di “godere” di uno dei dialoghi tra adolescenti più imbarazzanti sentiti al cinema di recente. Due Na’vi fanno una gara di volo e si rimpallano un’ovvietà dietro l’altra, chiudendo ogni frase con un “bro”: è il primo di tantissimi passaggi che lasciano l’impressione di un uomo in età avanzata che scimmiotta le dinamiche relazionali dei giovanissimi, convinto di poter parlare la loro lingua. La lingua originale permette anche di “godere” di Sigourney Weaver che doppia una delle figlie del protagonista Jake: la voce, evidentemente da donna matura che tenta di spacciarsi per giovane e trillante, è ancora una volta stridente e sbalza fuori lo spettatore dal film.

Così come lo è tutto il resto, in un film che ripete i meccanismi del predecessore in maniera tanto fedele e pedissequa che probabilmente è uno spoiler dire che ne ricicla e ricalca il finale, tematiche e location incluse. Quel che si era fatto con l’acqua nel secondo film si fa qui con il fuoco, introducendo la prima cattiva Na’vi: la bella e pericolosa Varang di Oona Chaplin, a capo di una tribù Na’vi che ha ripudiato l’animismo del resto della popolazione e muove guerra ai vicini con barbare pratiche di combattimento e tortura. Con la sua sfrontata cattiveria e sensualità esibita, Varang dà un minimo di verve alla trama, specie in contrapposizione con la sempre più dolente Neytiri di Zoe Saldana. Tuttavia è impossibile non notare come il film si schiacci sul duopolio santa/puttana nel descrivere i suoi personaggi femminili, ridotti a una sfilza di stereotipi fino ad arrivare al sacrificio più alto e puro per una donna che, neanche a dirlo, vive, respira e muore nel ruolo di madre.

Giunti a questo punto della storia, la saga si trova alle soglie di un passaggio generazionale tra la prima generazione di ribelli umani integrati su Pandora, quella del protagonista Jake, e una nuova generazione di giovani Na’vi. La narrazione avrebbe così l’occasione di esplorare le sfumature morali e sociali di una cultura colonialista e invasiva che ha attecchito e modificato in modo irreversibile la società aliena ospitante, anche quando questa influenza proviene da figure in teoria positive come quella del ribelle umano protagonista.


Il suo contraltare, il colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang), qui subisce la sua prima contaminazione culturale proprio grazie a Varang. Sarebbe in teoria una svolta forte, persino avvincente, non fosse che il film la relega a un paio di veloci raccordi narrativi per invece tediarci con le dinamiche di un gruppo di adolescenti Na’vi e umani, la cui storia è decisamente meno intrigante di quella di un uomo tornato dalla morte contro la sua volontà, il cui figlio viene cresciuto dal rivale che ha giurato di uccidere.

Come Avatar non riesca a trovare tempo da investire sui personaggi che funzionano e sulle poche novità che ha da proporre, pur durando più di tre ore, è un autentico mistero. Anche perché ormai l’ambiente naturale è una convenzionale ripetizione della stessa flora e fauna, con minime aggiunte come le creature aerostatiche dei mercanti o le “foche” aliene, proposte quasi in foggia di screensaver.

Il secondo capitolo La via dell’acqua aveva tutto sommato pochissimo da dire, invece questo terzo ha una svolta confusa e insolitamente muscolare, che sembra quasi contraddire le premesse stesse della saga. Se nel primo capitolo infatti Jake riscopriva la capacità di dialogo e ascolto grazie alla cultura dei Na’vi, contrapposta allo squallore mercenario della sua professione, qui Cameron forza la sceneggiatura per costringere i Na’vi ad abbracciare un militarismo armato che è espressione autentica di una certa cultura statunitense che al cinema non si vedeva da tantissimo tempo. Fuoco e cenere è una ground zero dei messaggi di comprensione e ascolto degli inizi, in un intreccio che non è incalzante, né solenne, né tragico: semplicemente, con qualche scorciatoia, vuole farci godere dei Na’vi che percorrono “la via delle armi”.

Basato su premesse semplicistiche e superficiali, Fuoco e cenere crolla proprio perché mette in evidenza quanto non ci sia dietro una profonda riflessione e una solida costruzione di cosa siano esattamente cultura e spiritualità Na’vi. Messo con le spalle al muro, il film trova soluzioni affrettate e ridicole, dalla partenogenesi a veri e propri poteri magici che si manifestano all’improvviso e con tempismo perfetto, negando al pubblico anche la consolazione di un momento che sfugga al più proverbiale trionfo del bene sul male. Nonostante i colori, è un bianco e nero morale che non consente vie di mezzo.

Cameron tradisce definitivamente i Na'vi

Lo si nota continuamente nel modo in cui i Na’vi siano un altro, un diverso che non è mai stato più di un espediente narrativo. Colpisce, per esempio, come uno dei ragazzini protagonisti, in un lungo voice over, parli di “un peccato” espiato dalle creature degli abissi marini del pianeta. Nella cultura Na’vi, animista e lontanissima dal cristianesimo, non dovrebbero esistere né la parola né il concetto stesso di un elemento naturale guidato da un divino che punisce trasgressioni di una presunta morale.

D’altronde è Cameron stesso a spingere a tavoletta sull’immaginario biblico, con un vero e proprio calco di un passaggio celeberrimo dell’Antico Testamento, per creare un momento tragico che poi, come gli animali aerostatici della carovana dei mercanti, si sgonfia in un nonnulla.

Tutto questo serve a cancellare un tratto potenzialmente negativo di Neytiri: la sua istintiva ostilità verso la carne, i colori, la forma umana, che le genera disgusto. Quando descrive con orrore “le piccole, numerose ditina rosa” di Spider, il film segna uno dei suoi pochissimi momenti davvero potenti, un nocciolo di qualcosa di doloroso e vivo, non pretestuoso per creare un po’ di dramma a basso prezzo. Un conflitto razziale che viene cancellato con un colpo di spugna, anzi di Bibbia, da un film che appare sempre di più per quello che è: il frutto narrativo blando e confuso di un regista e produttore che ha costruito e finanziato una scusa di enorme, miliardario successo per testare ancora una volta i limiti tecnologici del suo medium preferito, il cinema.