The Whale: come è rinata la stella di Brendan Fraser, tra qualche polemica

Dopo anni di ruoli di ruoli defilati, Brendan Fraser ha fatto il suo grande ritorno con The Whale di Darren Aronofsky, in cui la sua stella torna a brillare. Non senza qualche polemica.

di Elisa Giudici

Dov’era finito Brendan Fraser prima di fare il suo maestoso ritorno in scena con The Whale, il bellissimo film di Darren Aronofsky presentato al Festival di Venezia che gli ha già fruttato una nomination agli Oscar? La domanda se l’era già posta nel 2018 GQ che, in un lungo editoriale intitolato What Ever Happened To Brendan Fraser? ricostruiva l’arenarsi di una carriera che negli anni ‘90 sembrava destinata a un successo senza fine.

Fraser in realtà non se ne è mai veramente andato: a scomparire è stata la centralità del suoi ruoli e l’avvenenza convenzionale del suo fisico, che ne avevano fatto uno dei sex symbol degli anni ‘90. La star del franchise La mummia non ha mai smesso di lavorare anche perché non poteva farlo. Dopo il doloroso divorzio dalla moglie, aveva gli alimenti da pagare e, come lui stesso ammette, talvolta l’acqua alla gola.

A pesare sul suo bilancio c’è stato un lungo periodo di inattività dovuto al lato oscuro di un mestiere a cui aveva dato tutto, anche la sua sicurezza fisica. Negli anni Fraser ha più volte accennato agli infortuni subiti sul set dei vari sequel di La mummia ma solo in quell’intervista del 2018 emergeva in tutta la sua drammaticità la condizione di salute non facile attraversata dall’attore; i tanti interventi subiti, le riabilitazioni dolorose. A questo quadro si è aggiunto l’aumento progressivo del peso, che l’ha fatto uscire dalla lista dei sex symbol di Hollywood.

Eppure il pubblico Fraser non l’ha mai davvero depennato dalla lista dei propri favoriti, tanto che ogni sua apparizione pre e post The Whale è stata segnata da una commozione e un entusiasmo quasi senza pari. Può dire qualcosa in merito Darren Aronofsky, regista che ama i film controversi, la carne degli attori esposta e l’anima trafitta su grande schermo, capace di resuscitare carriere o lanciarle al livello successivo. Lo sa Mickey Rourke che ha vissuto un momento di riscatto professionale dopo vicende personali molto, molto controverse con The Wrestler. Lo sa Natalie Portman che grazie a Black Swan ha acchiappato quell’Oscar che ancora non era riuscita ad afferrare. Lo sa appunto Brendan Fraser che, grazie a The Whale, si è ritrovato ancora al centro di Hollywood.

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La vera storia dietro a The Whale

A posteriori è facile dire “non ho pensato ad altri che a Brendan per il ruolo”, come Aronofsky fa oggi, ma stavolta non è così difficile credergli. The Whale è un progetto che il regista carezzava da anni, da quando si era imbattuto nell’omonimo spettacolo teatrale dell’americano Samuel D. Hunter.

The Whale è una storia fortemente autobiografica in cui l’autore ha riversato tutto il dolore della sua vita, prima che questa svoltasse per il verso giusto. L’infanzia tetra in Idaho, l’outing in giovanissima età mentre frequentava una scuola religiosa evangelica, la depressione all’università sfociata in un rapporto malsano con il cibo, fino a una grave obesità.

Nella realtà Hunter è riuscito a rimettere insieme i pezzi della sua vita grazie all’aiuto del compagno e delle persone che gli sono rimaste vicine. The Whale, ha spiegato lui stesso, è il racconto di un alter ego che da quella spirale distruttiva non è uscito.

Charlie, il protagonista dello spettacolo teatrale e del film, è un insegnante di scrittura online che vive recluso in un appartamentino triste e logoro, con i soli 270 chili di enorme stazza a fargli compagnia. Nel corso del film scopriremo perché ha allontanato da sé l’ex moglie e la figlia adolescente, chi è l’infermiera che gli fa visita, perché improvvisamente vuole riconnettersi alla sua famiglia e se ci riuscirà.

Cosa accomuna Charlie di The Whale e Brendan Fraser

Per capire perché Brendan Fraser ha saputo sfruttare così bene questo ruolo, bisogna conoscere l’inferno che ha passatoprima di arrivare alla proposta di Aronofsky. Certo Fraser oggi è corpulento, ma non è obeso nei termini in cui lo è il personaggio di Charlie, tanto che ha dovuto indossare una speciale tuta per ricreare il corpo del personaggio nella sua grassezza.

Essere sovrappeso a Hollywood, diventarlo a seguito di un divorzio e di un periodo personale non facile e non perdere il proprio approccio gentile ed emotivo è ciò che accomuna personaggio e persona che lo interpreta. Charlie ha un trauma con cui deve fare i conti, Brendan per anni ha vissuto qualcosa di simile. Prima l’abuso sessuale: una profferta esplicita da parte di un membro in vista del comitato organizzatore dei Golden Globes (a cui infatti Fraser non ha partecipato neppure quest’anno), rimasto al suo posto nonostante la denuncia dell’attore. La palpata nelle parti intime, la vergogna, il diniego e poi il telefono che non squilla più. Il sospetto che diventa via via strisciante certezza, che qualcuno di potente gli abbia fatto terra bruciata attorno perché prima ha detto no e poi in seguito ha raccontato.

In tutto questo però gli amici di Brendan non lo dimenticano. Adam Sandler dice ad Aronofsky che Brendan è la persona giusta per il ruolo quando viene a conoscenza del progetto. Il regista di Requiem for a Dream a Madre! aveva pensato a Fraser, lo avvicina, ma poi arriva la pandemia e tutto si ferma. Anche il cuore in gola a Fraser, terrorizzato che sfumi l’ennesima occasione di rilanciare la propria carriera.

Spiega Fraser che poi Darren, con quel suo modo tipico di fare, gli scrive mesi dopo per chiarire qualche dettaglio logistico sulle prove prima delle riprese. Fraser stupito deve chiedergli se la parte sia sua e il regista risponde sorpreso che ovviamente sì, lo è, al fianco della star di Stranger Things Sadie Sink e di una stella recitativa in ascesa come quella di Hong Chau (anche lei nominata per The Whale a un Oscar).

Seguono settimane di prove in studio: Darren Aronofsky isola gli attori, vuole che arrivino a sentire ciò che devono poi provare sul set. Per Fraser non è una sfida facile. Oltre all’impatto emotivo del ruolo a cui si mescola il dolore privato, c’è una pesantissima tuta con cui imparare a muoversi e a recitare.

La Fat Suit in The Whale: cos’è e perché è stata criticata

Con la tuta, il grasso e l’ennesimo personaggio obeso e distruttivo arrivano immancabili le polemiche. Polemiche che è bene non derubricare sotto l’egida di uno sterile politically correct o sensibilità woke perché è un fatto che il cinema ha un record più che negativo nel ritrarre il grasso su pellicola, nel ridurre persone e personaggi alla propria grassezza, nel vincolare interpreti grassi al “ruolo del ciccione” (arrivando a chiedergli da contratto di non dimagrire).

Tra la miriade di passate offese e scherni, tra gli attivisti ferisce particolarmente l’utilizzo delle fat suit, le tute ingrassanti usate dagli attori normopeso per sembrare grassi, grassissimi, obesi. C’è un intero filone di commedie anni ‘90 basato su questo stereotipo non esattamente edificante. Anzi, l’utilizzo della fat suit dal punto di vista di interpreti e spettatori obesi è doppiamente offensivo: il magro che fa ridere perché si cala nei panni del grasso, a cui viene negata persino la possibilità di interpretare sé stesso.

Quella utilizzata in The Whale è l’evoluzione della vecchia fat suit: non più tuta imbottita, ma complessa costruzione modellata, stampa e dipinta a tre dimensioni per rendere in maniera fotorealistica il corpo obeso del protagonista. Ogni giorno viene montata sul corpo di Fraser che deve imparare a viverci, a muovercisi dentro. Se vi state chiedendo perché un’informazione tanto spendibile in chiave Oscar non sia stata debitamente raccontata è perché la fat suit è un argomento scomodo, un campo di battaglia.

Secondo molti detrattori - alcuni dei quali si rifiutano a priori di vedere il film in sala, alla presenza del pubblico normopeso - Aronofsky commette alcuni imperdonabili errori. Uno: realizzare un film che ancora una volta ritrae la grassezza come malattia, sintomo di disagio, trasposizione fisica di un guasto emotivo, comportamento distruttivo e autodistruttivo. Due: prendere una attore non obeso per interpretare un personaggio che lo è, utilizzando la tuta per ingrassarlo a dovere. Tre: rivolgere il film non alla comunità di coloro che sono obesi, ma ai normopeso, suscitando in loro solo compassione verso una figura patetica.

È importante e necessario ascoltare queste voci e le critiche a The Whale. Non sono mancate anche da parte di chi obeso non è, fino a definirlo offensivo. Se è vero che però il film è rivolto a chi grasso non è, vale la pensa di considerare anche quest’ottica: The Whale racconta la storia di un uomo che distrugge sé stesso in molti modi, dimostrandosi innanzitutto incapace di perdonarsi, di accettare davvero le conseguenze delle proprie scelte. Chi in sala ride o denigra la grassezza del personaggio non merita di far parte del dibattito su questo film e lo ignoreremo.

The Whale non mira mai, direttamente o indirettamente, a irridere Charlie o la sua condizione. Aronofsky però, nel bene e nel male, ha quel modo di girare il dito nelle piaghe della carne, di trasfigurarla ad uso dello spettatore, che quest’ultimo può davvero metterlo in difficoltà. E un regista che nel controverso ci sguazza, divisivo per definizione.

Stavolta però, a personalissimo parere di chi scrive, è emotivamente partecipe con quello che è tutto, tranne che un martire. Charlie viene anzi indagato nella sua propensione di addossarsi le colpe e subire angherie, piuttosto che affrontarle e cambiare. La sua incapacità di cambiare è la sua condanna. La grassezza, il suicidio mezzo cibo, arrivano dopo, con scene crude nel loro essere malsane. Il rapporto di Charlie con il cibo è quello di chi ha un disturbo alimentare, che sia basato sulla privazione, sulla bulimia, sulla compulsione. Non vuole essere un ritratto che equipara grassezza a malattia, vuole essere il ritratto di una mente intrappolata in una condizione di disagio mentale ancor prima che fisico.

Sul come, quando e perché ritrarre persone con questo grado di obesità in chiave positiva e normalizzante - la principale richiesta di una parte del movimento che reclama la body neutrality su grande schermo - sia apre un altro, enorme dibattito. The Whale però non ritrae una persona sana nella sua mente. Il suo malessere sfocia un autolesionismo che ferisce il corpo e lo fa col cibo. Non privandolo, ma abusandone.

Per quanto riguarda infine la questione di un altro attore dal fisico più simile a quello di Charlie si tratta della solita spada a doppio taglio di fattura hollywoodiana. Per finanziare un film ci vogliono i nomi. Non ci fosse Fraser nel ruolo di Charlie, The Whale sarebbe l’ennesimo progetto autoriale su cui si faticherebbe a portare l’attenzione del pubblico e degli Oscar. Si sarebbe potuto fare il film senza ritrarre così il fisico di Charlie? Giusta osservazione, se non fosse che Aronofsky è da sempre un regista di corpi in qualche modo estremi.

The Whale ha rilanciato una carriera e forse ne ha consacrata un’altra (quella di Hong Chau), che è in definitiva quello che ad Aronofsky riesce meglio. Giusto che se ne parli, giusto che si dia spazio anche le critiche, ma rimane la stella polare di un ritorno - quello di Fraser - basato su una performance sentita, personale, potentissima.