Lo strangolatore di Boston, il film true crime nasce da una foto su Facebook

Il regista Matt Ruskin, Keira Knightley e i protagonisti di Lo strangolatore di Boston raccontano come è nato ed è stato girato il film che racconta la storia del celebre killer da una prospettiva nuova.

di Elisa Giudici

Non è la prima volta che la storia dello strangolatore di Boston arriva su grande schermo. Un film del 1968 aveva già portato al cinema la caccia all’uomo che portò alla cattura di Albert DeSalvo, poi condannato per 13 omicidi.

Lo strangolatore di Boston di Matt Ruskin però, oltre che a ricostruire con fedeltà la vera storia di Albert DeSalvo, ha il merito di far emergere un’altra parte della realtà storica e processuale dell’epoca: il contributo fondamentale di due giornaliste. La protagonista del film, Loretta, contribuì insieme alla collega Jean a collegare tre dei primi omicidi.

Il loro coraggioso reportage mise la polizia sulle spine, ma accelerò le indagini fino alla cattura del killer. Nonostante la tenacia dimostrata in un ambiente lavorativo e umano ostile alle donne, il loro contributo fino ad oggi è stato dimenticato.

Ecco come il regista e sceneggiatore Matt Ruskin ha riscoperto questa storia dimenticata e come il cast, guidato da Keira Knightley, ha ricostruito sul set questa storia di crimine e riscatto bostoniano.

Durante la presentazione alla stampa sono intervenuti:

  • Matt Ruskin - regista
  • Keira Knightley - Loretta McLaughlin
  • Carrie Coon - Jean Cole
  • Alessandro Nivola - Detective Conley
  • Chris Cooper - Jack MacLaine

Matt, come hai scoperto questa storia? Lo strangolatore di Boston è famosissimo, ma prima di questo film non si è mai sentito parlare di Loretta e Jean, che pure sono state fondamentali per la sua cattura.

MR - Il True Crime è molto popolare e questa sua popolarità mi ha spinto a raccontare la storia dal punto di vista delle due giornaliste. Questa scelta è stata cruciale. Penso sia l’elemento che rende la storia degna di essere raccontata ancora una volta, altrimenti forse questo film non l’avrei proprio fatto.

Tutto è partito dal necrologio di Jean. Quando l’ho letto mi ha incuriosito e ho fatto un po’ di ricerche, ma non si trovavano informazioni su questa giornalista. Eppure era collegata a un caso così famoso, aveva scritto quel reportage! Niente, non si trovava quasi niente nelle fonti sullo strangolatore di Boston. Ho continuato a cercare. Facendo ricerche su Facebook ho trovato una foto di Jean che non avevo mai visto prima, sembrava personale. Così mi sono messo in contatto con chi l’aveva postata e ho scoperto che si trattava proprio della nipote della giornalista. Purtroppo ora anche lei è morta, ma ha fatto in tempo a raccontarmi la storia della sua famiglia e della sua nonna, è stata una fonte preziosissima per il nostro film.


Keira, cosa ti ha insegnato il personaggio di Loretta, la giornalista protagonista del film?

KK - Ti racconto un aneddoto. Ho avuto modo di parlare con un po’ di persone che la pellicola l’hanno già vista. Per alcune donne la visione è stata catartica, parole loro. Anche nel 2023, pur avendo fatto tanti passi avanti, tutte noi dobbiamo ancora fare i conti con episodi sul lavoro, in famiglia, nella vita, in cui ci viene chiesto di arrenderci a causa del nostro sesso. Loretta e la sua tenacia nel voler essere presa sul serio come giornalista, come donna lavoratrice, come madre è stata una vera ispirazione.

CC - Penso che questo film parli dell’alleanza tra donne, in un posto e in un momento molto pericoloso e difficile per il sesso femminile. Nel film il mio personaggio ha un suo modo convenzionale di evitare il conflitto e farcela in un mondo di uomini, senza sfidarli, navigando il loro mondo con cautela. Le sue certezze di reporter navigata vengono messe in discussione dal modo diretto di Loretta di fare le stesse cose, sfidando apertamente i pregiudizi.

Tu e Carrie sembrate molto affiatate anche fuori dal set.

KK - Io e Carrie siamo entrambe madri di due bambini piccoli e questo ci portava a capirci alla perfezione ogni mattina sul set. È una cosa che succede così raramente...la guardavo negli occhi e sapevo cosa aveva passato la sera prima, quello che avevo affrontato anche io.

CC - Sette anni fa saremmo tate preparatissime per il ruolo in ogni minimo dettagli. Mentre ora che siamo madri, arriviamo sul set sapendo le nostre battute e speriamo che sia scritto bene, dandoci tutti gli elementi per affrontare la giornata di lavoro.

KK - Un giorno sul set mi sono resa conto che avrei dovuto battere alla macchina da scrivere e non ne ero capace fingendo di essere una professionista che lo fa tutti i giorni. Mi mancava quell’abilità. Mi ha preso il panico. Carrie mi ha guardato e mi ha detto: “è ovvio che tu non sia preparata: hai due bambini piccoli…ce la farai”.

Carrie, cosa ti ha convinto a partecipare a questo progetto?

CC - Ad attrarmi di questo progetto c’era sicuramente la storia del mio personaggio. La vita di Jean, la giornalista collega di Loretta che interpreto, mi ha ricordato molto mia madre e le donne di quella generazione. Dai loro racconti mi è sempre stato chiaro che potevano diventare maestre, infermiere e poco altro. In chiave lavorativa, le scelte erano davvero limitate per una donna degli anni ‘60. Jean lottò con i denti per essere una giornalista vera e non essere relegata a una scrivania: questo lato del suo carattere mi ha colpito moltissimo. Inoltre avevo molto sentito parlare di Keira dai colleghi e volevo il ruolo per poter lavorare al suo fianco: quindi appena ho saputo che Loretta l’avrebbe interpretata lei, ho avuto un motivo in più per accettare il ruolo.

Chris, tu interpreti il redattore del quotidiano dove lavorano Keira e Jean. Come ti sei preparato al ruolo?

CC - Per prepararmi al personaggio ho avuto la fortuna di poter parlare di Aileen, una giornalista che era assunta nella stessa testata a cui lavorano i protagonisti del film. È più giovane di Loretta, è entrata in redazione negli anni ‘70 e ha lavorato lì per tutti gli anni ‘80. Aileen è stata un’allieva di Loretta e quindi mi ha potuto aiutare tantissimo per preparare questo personaggio.

Tutte le mie fonti mi dicevano la stessa cosa: i maschi nelle redazioni dell’epoca erano terribilmente sprezzanti e avevano poca considerazione delle colleghe. Mi hanno raccontato in tanti che quelle cose che si vedono nei film, i superalcolici in bottiglia nel cassetto più basso della scrivania, erano più che comuni. Era un ambiente cinico, ostile, ruvido.

Inoltre al mio personaggio, nella realtà come nella finzione, non è che interessassero così tanto questi omicidi di donne. Per lui quelle morte erano delle signore nessuno. Loretta lo aiutò ad aprire gli occhi, gli disse “sono persone della classe operaia, sono quelli che leggono il nostro giornale”.

Perché hai scelto un ruolo così “grigio” per moralità?

CC - I film che mi hanno fatto entrare in questo mondo sono quelli “da persona a persona” e se ne fanno sempre meno, purtroppo. In questo caso, mi è piaciuto come si è creata una tensione crescente con i movimenti molto lenti della cinepresa. Questo è il modo di girare che funziona, è questo tipo di professionalità che mi attira in un progetto.

Alessandro, cosa ci puoi dire del tuo detective? Anche lui non se la passa troppo bene no?

AN - Il mio personaggio è un po’ scocciato perché lui vorrebbe usare moderne tecniche di profilazione psicologica, ma alla polizia non gli danno retta, non vogliono sentir parlare di metodi così innovativi. Il fatto che lui si metta in contatto con Loretta in un certo senso lo vive anche come un tradimento verso i suoi colleghi e il dipartimento di polizia, ma è una mossa disperata per far succedere qualcosa, per tentare di far smuovere le indagini. Lui è ossessionato dal caso e Loretta è l’unica persona che incontra a cui queste morti stanno a cuore. Penso che siano fatti della stessa pasta e forse siano anche attratti reciprocamente, tra di loro.

MR - Non dimentichiamo che nel 1964 il termine serial killer non era nemmeno stato coniato, la criminologia era ancora a uno stadio embrionale come scienza. Loretta e il detective Conley sono persone molto progressiste, che sanno guardare avanti.


Però il tuo personaggio è anche in contrasto con Loretta per via dei loro lavori.

AN - La relazione tra media e forze dell’ordine è sempre stata complicata. Sai, ho avuto la possibilità di parlare con molti poliziotti per questo film, alcuni che lavorarono proprio in quegli anni. Più o meno tutti i bravi poliziotti avevano collegamenti con la stampa, c’erano persino banchi nelle stazioni di polizia a cui si rivolgevano i reporter e lì i poliziotti li aggiornavano su certi casi. Ovviamente però questo scambio d’informazioni non doveva mettere in cattiva luce il dipartimento di polizia, cosa che succede in questo caso e cambia tutti gli equilibri. I media sono fondamentali in storie come queste, spingono la ricerca di verità da parte della collettività. Senza mettere a rischio il successo di un’indagine o segreti di stato, credo che sia necessario che i media raccontino il più possibile per l’interesse della nazione.

In Lo strangolatore di Boston vediamo il volto del killer solo nelle fasi finali. Perché?

MR - Nel film non vediamo il killer in faccia fino alle fasi finali. Innanzitutto non volevo assolutamente mostrare le uccisioni delle vittime direttamente. Ho preferito che le parti più brutali rimanessero non viste, si svolgessero fuori dall’inquadratura. Odio mostrare la violenza se non necessaria. Inoltre volevo mantenere un po’ di tensione, facendoci identificare di più in chi gli dà la caccia al killer e non a che aspetto abbia. Così ogni volta che appare un sospettato, capiamo cosa provano Loretta e Jean.

Il film è girato a Boston. Alessandro, tu eri a casa tua! Com’è stato?

AN - Per me è stato magico essere finalmente su un set di un film ambientato a Boston, dovendo fare l’accento di Boston…sai, è una parlata molto complicata da riprodurre per chi non è cresciuto in città e io lo sono. Noi di Boston storciamo sempre un po’ il naso quando sentiamo altri attori provarci perché spesso il risultato è un po’ imbarazzante. Per me ovviamente è stato facilissimo e sono stato contento di portare un po’ di autenticità in questo progetto.

MR - È il motivo per cui volevo girare proprio in Boston. C’è una scena teatrale molto viva in città, quindi non sono mancati attori da arruolare per fare in modo che i poliziotti, le passanti, le vittime e le comparse avessero tutte quell’aria bostoniana e l’accento giusto.