Il problema di All’s Fair non è quanto sia brutto (tanto), ma quello che dice (malissimo)

Sulla bruttezza del primo legal drama di Ryan Murphy con Kim Kardashian protagonista è facile sparare a zero, ma il peggio All’s Fair lo dà con le sue lezioncine su donne, carriera e affetti.

di Elisa Giudici

Contrariamente a quanto pensano in molti, scrivere una stroncatura è poco impegnativo e ancor meno soddisfacente: come tutti gli estremi, manca delle sfumature necessarie a rendere complesso e sfidante trasporre i propri pensieri in parole. Almeno quando ci si imbatte in qualcosa di qualitativamente eccelso si è motivati dall’urgenza di raccontarlo, condividerlo, consigliarlo spiegandone il valore al meglio. Nel caso di chi scrive, non c’è nemmeno la gioia sadica di demolire qualcosa che se lo meriti con studiate aggettivazioni taglienti: nessuno mi restituirà il tempo perso passato a vedere qualcosa che merita una recensione senza appello. L’unica consolazione che ne ricavo è poter evitare che altri sprechino il loro prezioso tempo libero.

All’s Fair ha suo modo ha fatto notizia proprio per l’eccezionale onda di stroncature che l’ha accolto e che il suo embargo scaduto oltre la messa in onda faceva già presagire. Era dai tempi del contestatissimo The Idol di Sam Levingson (che a sua volta ho avuto il dispiacere di seguire e recensire) che una serie non faceva notizia per la spietatezza dei giudizi raccolti. Qualitativamente parlando, All’s Fair è ben peggiore di The Idol, che nelle sue esagerazioni e bassezze aveva quantomeno la smania di dire qualcosa.

In All’s Fair succede davvero pochissimo

A lasciare basiti in All’s Fair è innanzitutto la totale mancanza di accadimenti. Ci troviamo in un legal drama in cui i casi legali occupano qualche minuto dell’intera puntata, in cui le vicende personali delle protagoniste (i figli di una concepiti con inseminazione artificiale, la relazione stabile dell’altra e il tradimento del marito della terza) vengono continuamente racconti in scene iper statiche in cui le tre attrici sono adagiate come sfingi su divani o poltrone, le borse di design al centro del fotogramma: le loro Gucci e Valentino hanno più spazio (visivo e narrativo) delle loro vite e carriere.

C’è talmente poco in All’s Fair che viene da chiedersi come vengano riempiti quaranta minuti in ogni episodio, pur considerando che il realismo non è davvero il punto della serie. Alla sua prima prova legal, Ryan Murphy vuole creare una sorta di versione glamourama del mondo dei grandi studi legali, così come a suo tempo hanno fatto grandi titoli come Damages, The Good Wife, Ally McBeal: citarli nella stessa frase con quest’ultima serie è già di per sé una mossa controversa, anche se in teoria condividono il genere e l’approccio allo stesso.

Murphy crea un’utopia in cui Kim Kardashian e Naomi Watts lasciano lo studio legale molto maschilista in cui lavorano per fondarne uno proprio e rappresentare solo donne, per lo più in ricche cause di divorzio. Clienti che sono ovviamente in rotta con i relativi a mariti disgustosi, a cui spillano cifre così astronomiche da essere ridicole, pur avendo firmato accordi pre-matrimoniali capestro. D’accordo l’utopia, ma è la completa mancanza di attrito a lasciare perplessi, se non, ribadisco ancora, la completa mancanza di storia. Le due protagoniste lasciano lo studio portandosi dietro un’assistente paralegale con la benedizione della socia veterana di Glenn Close e si ripromettono in dieci anni di creare un impero legale. Salto temporale e dieci anni dopo eccole, non un’impasse, non un difficoltà, non un riferimento a come abbiano trovato un portafoglio clienti e i fondi per riuscirci.

Il giorno in cui se ne vanno è anche quello della genesi della cattiva della serie, Sarah Paulson. Lei, cocca della socia veterana, lavoratrice indefessa e talentuosissima avvocata giura mortale vendetta alle due colleghe in fuga perché…non è ben chiaro perché. Perché non si portano via una collega tanto brava? La serie di scuse ridicole elencate in questa particolare scena ( coronata dalla rivelazione che Paulson gli ha rubato un pranzo di troppo dal frigo comune) è tale che alla fine si finisce per parteggiare per l’incavolatissima cattiva. Almeno fin quando la serie non la costringe a scrivere un biglietto alle due talmente stupido nel suo vetriolo da farti riconsiderare le scelte di una carriera professionale che ti ha messo davanti a una serie del genere.

La recitazione in All’s Fair varia da pessima a totalmente assente

Non posso saltare un doveroso commento esterrefatto di fronte alla performance di Kim Kardashian. Che dire? Difficile valutare una recitazione quando ogni tentativo di veicolare qualsivoglia sentimento o reazione emotiva del personaggio che si interpreta è sostanzialmente assente. Nessuno recita davvero bene in questa serie, nemmeno le povere Teyana Taylor e Glenn Close, ma Kardashian si limita ad esistere sul set, offrendo alla cinepresa uno volto contraddistinto dall’assoluta mancanza di reazione a ciò che le capita attorno. Kardashian è vestita di tutto punto, carismatica a modo suo nell’esprimere un completo e assoluto nulla, distaccata persino dale sue stesse vicende, immobile fisicamente e a livello emotivo.

Fin qui la prevedibile demolizione di una serie scritta malissimo, diretta peggio, che trasforma la sua smania di essere glamour in una sfilata infinita di outfit esageratissimi tra cappottini e impermeabili pitonati che cambiano al volo tra quando il personaggio di turno sale e scende dalla sua macchina, senza alcuna spiegazione. Ho molto riso anche di fronte a un altro particolare, rimanendo in tema macchine: la serie esibisce una ricchezza tanto esagerata delle protagonisteche il personaggio (odiosissimo nella sua stucchevolezza) di Niecy Nash va a pedinare un uomo per paparazzarlo con foto compromettenti…ma rimane sul sedile posteriore, reflex alla mano, mentre la guida e accompagna all’appostamento un autista privato.

La ricchezza ostentata di All’s Fair è fastidiosa tanto quanto quella dei reality di cui è stata protagonista per anni Kim: un lusso esagerato senza motivazione o gusto, che le protagoniste non si sono sudate se non a parole e che è normalizzato senza che fornisca alla narrazione alcun tipo di apporto. All’s Fair parla del 1% della popolazione statunitense normalizzandone i comportamenti da elite ma ponendosi al contempo come un paladino dell’equità. La serie fa rimpiangere amaramente certe generalizzazioni un tanto al kg in cui scivolava Suits nelle sue stagioni più avanzate.

Il femminismo di All’s Fair è superficiale e deleterio

Particolarmente odioso poi è il filone di femminismo superficiale e privo di complessità che vuole propagandare. Chi scrive ha in particolare antipatia tutte quelle semplificazioni che per parlare di una società più giusta per le donne finiscono per privare queste ultime di ogni tratto negativo e della potenziale di poter essere anche stronze, alla bisogna. All’s Fair fa molto, molto peggio di così, presentandoci un pugno di clienti che sono tanto inermi e disprezzabili quanto i loro mariti. Donne che magari hanno trovato l’amore vero o una realizzazione a dispetto dell’ex milionario e sono disposte ad andarsene senza badare troppo al denaro, ma si lasciano convincere di meritarsi “risarcimenti” milionari, perché poi alla fine qui i soldi sono l’unico metro di giustizio davvero impiegato.


Il passaggio che davvero ha messo alla prova la mia pazienza riguarda però il mondo del kink e del sadomasochismo, in una serie che parla apparentemente con libertà di sesso ma appunto, si limita a raccontarselo tra un calice di champagne e l’altro, riducendo l’intimità a una serie di misure di genitali maschili. Da uno come Ryan Murphy, che dell’immaginario fetish e dell’eccesso kitsch e trash ha fatto praticamente una bandiera (riportando in auge icone del passato dimenticate dal resto del mondo produttivo) tutto mi aspettavo tranne la solida demonizzazione del mondo del sadomasochismo e dei role play. C’è una dominatrice che vende volentieri le foto del suo cliente (già travisando totalmente la fiducia e la riservatezza su cui si basa questo mondo) con la scusa che “le pratiche che ama sono disgustose” ma ancor peggio, c’è un equiparare fantasie innocue a qualcosa di talmente vergognoso e peccaminoso da valere duecento milioni di dollari.

D’altronde All’s Fair è popolato da sfingi dalle mani sempre inspiegabilmente guantate, che si crogiolano nel loro distacco e misurano il mondo a suon di cifre milionarie, in un’universo completamente privo di vulnerabilità, emotività, forse persino di sentimenti. Perciò non rimane altro da fare che ciaciare del lavoro (invero minimo) che si è fatto, di ciò che si è ottenuto e delle misure dell’uomo che, per ora, si ha accanto. Persino com