Dark Atlas: Infernum, recensione di un calvario sotto forma di horror psicologico

Quando l'esoterismo si trasforma in frustrazione e confusione

di Alessandra Borgonovo

C'è un fascino innegabile nell'esoterismo, in quel confine sottile e fumoso dove la realtà che conosciamo inizia a sgretolarsi per lasciare spazio a qualcosa di più antico, oscuro e incomprensibile. È la promessa che Lovecraft ci ha fatto un secolo fa e continua a riverberare nella cultura pop: la paura non risiede nel mostro che vedi, ma nell'impossibilità di comprendere l'architettura dell'incubo che ti circonda. Dark Atlas: Infernum, sviluppato da Night Council Studio, si presenta proprio con questa premessa ambiziosa. Vuole essere un viaggio nella mente fratturata di una donna potente, un'odissea attraverso apocalissi personali e collettive, promettendo di fondere l'horror psicologico con una lore densa di ordini segreti e rituali proibiti.

Sulla carta, aveva tutte le carte in regola per essere una delle possibili sorprese indie dell'anno, quel gioiello grezzo capace di inquietare le notti autunnali. Tuttavia, dopo aver passato ore a vagare nei suoi corridoi labirintici, la sensazione prevalente non è il terrore quanto una profonda, persistente sensazione di amaro in bocca per quello che questo gioco avrebbe potuto essere. Dark Atlas: Infernum inciampa sui suoi stessi piedi, offrendo un'esperienza che alterna scorci di una bellezza gotica innegabile a scelte di design così frustranti da far desiderare che l'apocalisse arrivi più in fretta per mettere fine alle nostre sofferenze.

Una narrativa criptica

La nostra discesa nell'abisso inizia nei panni di Natalia Asensio, Gran Maestro del Consiglio Notturno, un ordine esoterico che sembra uscito direttamente da un romanzo di Umberto Eco riscritto sotto l'effetto di allucinogeni. Il mondo esterno è nel caos: tempeste violente, cieli color sangue e apparizioni spettrali suggeriscono che la fine dei tempi è vicina. Ma la nostra battaglia è, almeno inizialmente, molto più intima e claustrofobica. Ci risvegliamo prigionieri in un luogo che sfida la logica, con la memoria a pezzi e una voce misteriosa e onnipresente, "La Parola", che ci guida (o forse ci schernisce?) attraverso un percorso frammentato di recupero dei ricordi, costringendoci a mettere in dubbio la nostra stessa sanità mentale.

Dal punto di vista puramente narrativo, il gioco ha un fascino magnetico. La lore costruita attorno al Consiglio, ai rituali e alla natura della realtà stessa è ricca e intrigante. Si parla di dimensioni che collassano, di entità che trascendono la comprensione umana e del peso della conoscenza proibita. Il modo in cui la storia viene offerta al giocatore, principalmente attraverso documenti sparsi e monologhi interiori, richiede al giocatore un livello di attenzione e dedizione non comune. È un approccio decisamente "vecchia scuola", che non imbocca l'utente con cutscene esplicative ogni cinque minuti, ma chiede di mettere insieme i pezzi del puzzle autonomamente, un aspetto intellettuale che ho sinceramente apprezzato.

Tuttavia, l'esecuzione di questa narrativa soffre di un problema enorme: il doppiaggio. Se l'atmosfera potrebbe avere le velleità di una produzione di medio-alto livello, la recitazione in inglese ci riporta bruscamente a terra con una qualità che definire amatoriale è un eufemismo. Le linee di dialogo, spesso scritte con un linguaggio volutamente aulico, complesso e carico di terminologia esoterica, vengono recitate con un'enfasi quasi sempre sbagliata, piatta o del tutto assente. Questo scollamento tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo spezza l'immersione proprio nei momenti che dovrebbero essere i più drammatici e carichi di pathos. È estremamente difficile temere per il destino dell'umanità o provare terrore quando Natalia reagisce alla vista di un orrore cosmico indescrivibile con il tono monocorde e annoiato di chi sta leggendo la lista della spesa, privando il personaggio di quella gravitas che il suo ruolo di "Gran Maestro" richiederebbe.

Un walking simulator evoluto

Il cuore pulsante di Dark Atlas: Infernum è l'esplorazione. Il gioco si configura essenzialmente come un walking simulator evoluto, dove il nostro compito principale è navigare ambienti interconnessi, risolvere enigmi ambientali e trovare la strada per proseguire. E qui arriviamo al primo, gigantesco scoglio che ha minato la mia esperienza: l'assenza di una mappa.

In un gioco lineare questo non sarebbe un problema, ma Dark Atlas ci getta in ambientazioni labirintiche - biblioteche ciclopiche, ospedali in rovina, sotterranei che sembrano non avere fine - senza alcuno strumento per orientarci. L'intenzione degli sviluppatori era chiaramente quella di aumentare il senso di smarrimento e claustrofobia, costringendo il giocatore a memorizzare visivamente i percorsi. Il risultato, però, è una frustrazione costante. Mi sono ritrovato a girare in tondo per decine di minuti nella stessa sezione, non perché l'enigma fosse difficile, ma perché ogni corridoio sembrava uguale all'altro e non avevo idea di dove fossi rispetto all'obiettivo.

Gli enigmi stessi sono un misto di intuizioni brillanti e design ottuso. Alcuni puzzle richiedono di manipolare oggetti o interpretare simboli esoterici in modo logico e soddisfacente. Altri, purtroppo, sembrano basarsi sul "pixel hunting", costringendoci a cliccare ossessivamente su ogni angolo buio nella speranza di trovare l'oggetto chiave minuscolo che ci siamo persi. Qui entra in gioco il "Clypeus", una sorta di scudo/visore magico che Natalia può evocare. È una meccanica interessante: il Clypeus ci permette di vedere tracce invisibili, decifrare sigilli e, in teoria, proteggerci. L'effetto visivo quando lo attiviamo è suggestivo, distorcendo la realtà e rivelando un livello nascosto del mondo, ma la sua utilità pratica si riduce spesso a un semplice tasto per vedere cosa fare dopo, togliendo parte del mistero.

La frustrazione delle dinamiche stealth

Se l'esplorazione oscilla tra il fascino e il fastidio, la componente survival è dove il gioco crolla rovinosamente, trascinando con sé gran parte dell'esperienza. Non abbiamo armi per difenderci, il che è uno standard persino prevedibile in giochi di questo tipo. Quando incontriamo le entità ostili che popolano questi incubi - figure spettrali inquietanti e grottesche - l'unica opzione è la fuga o il nascondersi.

Il problema è che le meccaniche stealth sono rudimentali e poco rifinite. L'intelligenza artificiale dei nemici è erratica: a volte ti vedono attraverso i muri da chilometri di distanza, altre volte puoi passargli letteralmente davanti senza che reagiscano. Quando si viene scoperti (e succederà spesso, non per colpa vostra bensì per il design dei livelli), inizia una sequenza di inseguimento che quasi sempre termina con un game over istantaneo. Natalia si muove con una lentezza esasperante; anche durante la corsa, sembra di guidare un carrello della spesa con una ruota rotta. Non c'è senso di agilità, non c'è la frenesia della sopravvivenza, solo la rassegnazione di dover ricaricare l'ultimo checkpoint.

A proposito di checkpoint, il sistema di salvataggio al lancio era punitivo in modo quasi sadico, costringendo a rifare intere sezioni di gioco, inclusi dialoghi non saltabili e puzzle lenti, dopo ogni morte. Fortunatamente, qui entra in gioco la patch rilasciata il 24 novembre. Devo dare atto agli sviluppatori di aver ascoltato (in parte) le lamentele. L'aggiornamento ha ribilanciato il prologo e aggiunto diversi punti di salvataggio manuale e automatico, rendendo la progressione meno dolorosa. Ho notato un miglioramento netto soprattutto nei primi capitoli, dove prima morire significava perdere venti minuti di progressi, ora si riparte da una posizione più ragionevole. La patch ha anche corretto alcuni bug critici che bloccavano la progressione nella biblioteca (Capitolo 2) e ha migliorato la visibilità di oggetti essenziali come i pezzi degli scacchi, che prima erano quasi invisibili nel buio. Tuttavia, un cerotto non guarisce una gamba rotta: la legnosità dei movimenti e l'IA scadente restano lì, immutate. Esiste una "Story Mode" che rimuove i nemici, permettendo di godersi solo la trama e l'atmosfera, e onestamente, è il modo in cui consiglio di affrontare il titolo per evitare crisi di nervi, anche se ammette implicitamente il fallimento del design survival.

Un quadro dipinto a metà

Visivamente, Dark Atlas: Infernum è un paradosso. Mosso dall'Unreal Engine 5, ci regala scorci di una bellezza gotica evidente, con un illuminazione che risulta la vera protagonista del pacchetto: candele che proiettano ombre tremolanti su muri di pietra, luci asettiche che sfarfallano in corridoi ospedalieri, tempeste esterne che illuminano a giorno stanze buie. La direzione artistica ha un gusto eccellente nel creare scenari che sono al contempo realistici e onirici, sporchi e dettagliati. La pioggia, il fango, la texture dei vecchi libri: c'è una cura per il dettaglio statico che merita un plauso.

Appena qualcosa si muove, però, l'illusione si infrange. Le animazioni sono rigide, legnose, prive di peso. Vedere le mani di Natalia interagire con gli oggetti è un tuffo nel passato di due generazioni console. Inoltre, le prestazioni tecniche sono instabili. Anche su hardware performante, il gioco soffre di cali di frame rate improvvisi e inspiegabili, specialmente quando si passa da un'area all'altra o durante gli effetti particellari più intensi del Clypeus. Il tearing dello schermo è frequente e fastidioso, rovinando la pulizia dell'immagine.

Il comparto audio, voce a parte, è invece di ottimo livello. I suoni ambientali - il vento che ulula, i passi scricchiolanti, i lamenti lontani - sono mixati con sapienza e contribuiscono a creare quell'atmosfera di tensione costante che è il vero (e forse unico) punto di forza solido del gioco. La colonna sonora, pur non memorabile, accompagna bene l'azione senza mai diventare invasiva.