Recensione Dying Light: un macilento more of the same?

Uno sviluppo non privo di intoppi non riesce a far emergere come dovrebbe il sequel di uno dei titoli open world più apprezzati della scorsa generazione

di Simone Marcocchi

Il mondo dell’intrattenimento non si accontenta più degli zombie claudicanti e macilenti, ora corrono, si agitano, sono organizzati e cattivi… ma è sempre l’essere umano la creatura più cattiva da temere.

CHI MUORE SI RIVEDE
Le vicende di Arran sono ormai archiviate, avere una cura però non significa vivere in un mondo migliore, ma è chiaro che il tempo passato ha portato l’umanità a vivere una certa evoluzione. La precarietà della sopravvivenza in ambienti estremi, metropoli in cui muoversi, procurarsi il cibo, difendersi e cercare svago risultano esperienze piuttosto diverse rispetto al passato (ma in fondo neanche così tanto). Il tempo trascorso si evidenzia nella natura che sta prendendo piede su una città che è diventata una realtà marcescibile, come chi è sopravvissuto. Carcasse umane che si trascinano da un posto all’altro, spesso senza più l’anima, uomini e donne simili alle creature che combattano, ma decisamente pieni di speranza per l’avvenire.

Ecco quindi che prendono piede le avventure di Aiden che deve trovare la sorella Mia, coinvolgendo nel frattempo un turbinio di vite, volti a cui daremo un nome e dietro ai quali si nascondono tante storie, tutte da scoprire, e nel complesso ben scritte. Le quest sono davvero tantissime, tra secondarie e principali, e la tradizione Techland prevederà un supporto a lungo termine che quasi sicuramente vedrà anche l’arrivo di DLC a pagamento, per ampliare alla grande quanto di buono già sia stato fatto. Si può giocare da soli o in cooperativa e la voglia di sperimentare in combattimenti assortiti, cercare nascondigli e mescolare gli elementali più disparati per incrementare la parte offensiva è sempre divertente e ben fatta.

FACCIA DA ZOMBIE
Certo, guardando oggi il primo Dying Light, che ormai ha sette anni e non sono proprio pochi, e confrontandolo con il seguito ne esce decisamente vincitore. Chi lo ha giocato su PC ricorderà quanto era bello, ma anche mostruosamente fluido con cinque generazioni di GPU nel mezzo, come requisiti massimi ed uscite nei negozi. DL2 è forse figlio di uno sviluppo complicato, rivisto, corretto e riscritto (forse) ma esce con un’estetica che non è molto diversa dall’episodio d’esordio, con la risultante che oltre al peso degli anni è stato sovraccaricato da una mole di effettistica di cui non si ha una reale percezione – terribile vedere il fuoco, ad esempio, o le texture a bassa risoluzione perfino su personaggi dotati di una mole poligonale risicatissima -, ma che ne inficia anche le prestazioni.

video

Il parkour torna preponderante, facendoci saettare da un palazzo all’altro, anche se è necessario comunque sbloccare parecchi perk prima di apprezzarlo veramente. Se il combattimento convince parzialmente, ma funziona dall’inizio alla fine senza troppi problemi – picchiare umani o non morti equivale a trascinare in un valzer un manichino di carne a destra e sinistra – è nel momento in cui vorrete fare qualche combo che le cose si incastrano un po’. Che abbiate potenziamenti o meno, le combinazioni mancano spesso di armonia nei movimenti e ci si perde nel clou dell’azione, che siano parry, salti, colpi, oltre al fatto che le stesse animazioni dei nostri avversari soffrono di lag anche in single player o mancano proprio di un posizionamento preciso con nemici che compaiono e spariscono e ricompaiono all’improvviso, così da farci perdere la tramontana dell’azione. In co-op i problemi si amplificano, con quest che non si riescono a portare avanti per bug e un net-code in generale terribile.

Ci piace l’idea che Techland non abbandonerà mai i propri acquirenti, che Dying Light 2 si aggiornerà, che si amplierà gratuitamente, che avrà patch e DLC gratuiti, che continuerà a funzionare ma alla fine appare palese che quello che ci troviamo di fronte sia un evidente more of the same non particolarmente ispirato e privo di quella carica innovativa che avrebbe invece meritato un progetto di questa portata.