The Boogeyman, recensione del nuovo horror tratto dal racconto di Stephen King

Dopo cinquant'anni dalla sua prima pubblicazione, la storia del "Baubau" torna in sala con la regia di Rob Savage

di Aida Picone

Chiunque si è sentito dire, almeno una volta, la frase: “fai il bravo o ti viene a prendere l’uomo nero”. Una minaccia che cela in sé la principale e primitiva paura dell’uomo: quella del buio. Dal mito di Platone, in poi, le ombre e l’oscurità si sono sempre contrapposte alla luce. Quando, infatti, siamo privi di una fonte di illuminazione la nostra mente può vagare e proiettare ogni singolo nostro tormento. Su “l’uomo nero”, dal 2005 in poi, è stata anche realizzata una trilogia, ma per la prima volta viene portato in sala il racconto del padre dell’horror americano. Il soprannome originale era “Baubau”, ed è una delle storie inserite nella raccolta “A volte ritornano”, pubblicata nel 1973 all’interno di uno dei numeri della rivista Cavalier. Nel corso del tempo, però, si è cristallizzato nell’immaginario collettivo come “The Boogeyman”.

La creatura di King, dunque, torna ad essere materiale cinematografico sotto la regia di Rob Savage. Il film sarà nelle sale italiane dal 1 giugno.

Cambia leggermente la prospettiva rispetto ciò che è stato scritto da Stephen King. Savage ci trasporta in una sorta di sequel, restando si all’interno dello studio di uno psicologo, ma addentrandoci nelle sue mura domestiche. Le vittime sono una famiglia composta dal padre (Chris Messina) e le due figlie: la maggiore si chiama Sadie (Sophie Thatcher); e la minore Sawyer (Vivien Lyra Blair). Da poco è venuta a mancare la madre, quindi il nucleo familiare sta affrontando il peso del lutto. A ciò si aggiunge il suicidio di un uomo, praticamente uno sconosciuto, che si è recato in casa loro per poter cercare di trovare aiuto per superare la perdita dei suoi tre figli. Prima di privarsi della vita, però, l’uomo racconta che tutti lo credono responsabile dell’omicidio dei suoi figli, ma in realtà è stata una creatura che lui ha a mal appena intravisto. Nel racconto di King, è proprio Lester Billings (David Dastmalchian) il protagonista, di fatto, lo scrittore gioca con la presunta colpevolezza dell’uomo.

Di cosa parla "The Boogeyman"

Fin dai primi istanti possiamo notare come il tema principale della pellicola sia il “non essere creduti”. Il “Boogeyman” si nasconde nell’oscurità e si mostra solo alle vittime designate, preferendo attaccarsi a chi sta cercando di superare un forte trauma. Sawyer, in questo specifico caso, è la preda perfetta: sta cercando di convivere con la perdita della madre e un uomo si è appena tolto la vita in casa sua. Tutti elementi che spingono gli adulti che le stanno intorno a non crederle. L’uomo nero si maschera come “frutto” dell’immaginazione di chi lo vede. Il suo simbolismo, di conseguenza, diventa quasi lampante: non è solo elemento di espiazione del dolore, ma soprattutto la richiesta violenta di ascolto.

L’orrore di King, soprattutto in questa storia, non è orientato al cercare di spaventare; quanto più di porre l’attenzione sulla fragilità della psiche umana. Il cuore della notte cela dentro di sè tutte le avversità contenute nella nostra giornata e il nostro animo trova, negli angoli più nascosti, mostri che non siamo in grado di affrontare da soli. È proprio da questo punto di vista che Stephen King ha dato vita al “Baubau”, un mostro che se ne sta nascosto all’interno del nostro armadio o sotto il nostro letto e ci terrorizza fin dalla più tenera età. Un elemento perturbante che spinge i protagonisti ad essere sempre più isolati e soli. Anche perché l’unico adulto in casa magicamente sparisce, nonostante le figlie urlino.

Nonostante la presenza di jump scare e di un mostro che fisicamente è inquietante, dunque, il saltare sulla poltrona non è il vero obiettivo di questa pellicola. Diciamo anche, in tutta onesta, che il vero terrore si concentra sulle prime scene per poi diventare via via più concettuale nonostante il mostro assumi sempre più fisicità. Si tenta di esorcizzare un problema e di metter sotto controllo il proprio dolore. A tentare di spaventare il pubblico ci pensa la regia che gioca sapientemente con i tempi per poter cercare di ottenere il massimo spavento.

Ottima la prova attoriale delle due protagoniste, specie la più piccola. Vivien Lyra Blair, colei che ha dato volto alla piccola Principessa Leia in “Obi-Wan Kenobi”, riesce perfettamente a far entrare il pubblico in simbiosi con le sue emozioni.

Savage ci propone, dunque, una pellicola in linea con la penna di King. Una storia breve che ci spinge a riflettere sul dolore quotidiano e sul potere che gli diamo.