Bohemian Rhapsody

Freddie Mercury ha rappresentato l’essenza del frontman. Un artista con il potere di trasmettere tutta la sua prorompente carica di vitalità al pubblico; un uomo che riusciva a ragionare fuori da qualsiasi schema, proponendo spesso scelte ardite e fuori da qualsiasi logica commerciale dell’epoca. Una carica selvaggia e imprevedibile, tanto da riuscire a sfociare anche nella sua tormentata vita personale, condizionandola in maniera irreversibile.

IL RUMORE DELLA MUSICA

Non è facile essere Freddie Mercury. Non è stato facile nemmeno per lui stando alle tante biografie uscite, figuratevi per quel Randy Maleck che ha accettato l’incredibile sfida di rappresentare l’immortale voce dei film all’interno della bio pic chiamata Bohemian Rapsody.

Un film che consacra la figura del cantante nato a Zanzibar, senza però mai mettere in ombra gli ingranaggi di quel meccanismo perfetto chiamato Queen: Roger Taylor (Ben Hardy), John Deacon (Jospeh Mazzello) e Brian May (Gwilym Lee). In tutto questo lo sceneggiatore Anthony McCarten, unendo alcuni passaggi in maniera storicamente non proprio accurata (tipo il momento in cui Freddie mette al corrente il gruppo della sua malattia), sceglie una strada piuttosto superficiale nel raccontare alcuni passaggi chiave nella vita del cantante. Sia il momento in cui prende consapevolezza della sua identità sessuale, quanto quello della contrazione della malattia, non sono mai approfonditi, non si entra mai nell’intimità del protagonista, restando piuttosto attinenti unicamente ai fatti che fanno parte di un viaggio corale che culmina nel famoso concerto di Wembley. Persino il concetto stesso di solitudine, che in alcuni momenti della pellicola sembra emergere, è subito soffocato da una canzone o da un dialogo tra i membri della band.

Ed è forse questa la chiave di lettura del lavoro fatto da Singer, un film che racconta la magnificenza artistica e musicale del gruppo, con la fasi di gestazione di Bohemian Rapsody che sono di gran lunga i migliori momenti della pellicola.

Malek funziona proprio in questi momenti. In queste fasi transitorie in cui si percepisce il concetto di famiglia all’interno del gruppo, e allo stesso tempo vengono a galla tutti i limiti d’ingombranti personalità sotto lo stesso tetto. Anche perché, ed è bene rilevarlo, è negli altri momenti che non funziona il Mercury di Malek. Un personaggio che non riuscendo mai a cantare dal vivo (cosa impossibile, per l’estensione vocale dell’artista) ma costantemente in playback, ed esagerando nelle movenze sul palco, sfociando quasi nel caricaturale in alcuni momenti, non è mai in grado di generare una vera empatia con lo spettatore; di creare quel ponte emozionale in grado di farti entrare nella testa e nel cuore di quell’anima tormentata lasciando, al contrario, il pubblico come semplice spettatore delle vicende.  In tutto questo una parte della colpa è da attribuire alla costruzione estetica dell’attore, costantemente costretto all’interno di una protesi dentale fin troppo esagerata, che lo procede costantemente all’interno di ogni singola inquadratura.

Quello che ne esce è quindi un film assolutamente in grado di intrattenere grazie alla evocativa prorompenza dei Queen, nonostante alcuni palesi limiti di sceneggiatura e recitazione. Un film che, come detto, esalta il quartetto come band e la musica che sono riusciti a produrre, lasciando davvero tantissimo spazio alla parte musicale, riuscendo a sacrificare in parte persino i momenti di dialogo.

La lunga chiusura sul concerto di Wembley è una scelta simbolica e apprezzabile. Un momento che celebra la magnificenza della band, che mette il pubblico nella condizione di essere uno spettatore in una posizione privilegiata in quello che è stato un momento storico, che ha relegato i Queen nell’Olimpo delle band del Rock’n’roll.