A House of Dynamite è il thriller politico e monito nucleare spaventosamente verosimile di Kathryn Bigelow
Il mondo è sull’orlo dell’Apocalisse nucleare ma non sembra curarsene: Bigelow trasforma la sua preoccupazione in un thriller teso e ansiogeno nell’essere così spaventosamente verosimile.
Il mondo vive sull’orlo dell’Apocalisse nucleare ogni giorno, ogni notte. Con nove nazioni che possiedono un arsenale nucleare singolarmente in grado di spazzare via buona parte del genere umano in poche ore, senza contare la reazione a catena, le ritorsioni, la possibile escalation globale, non è una questione ipotetica, ma drammaticamente reale.
Eppure la minaccia nucleare al centro di A House of Dynamite sembra in qualche modo datata, le paure relative appartenenti all’epoca della Guerra fredda e sgretolatesi insieme al Muro di Berlino nel 1989. Se un tempo le persone comuni nei due blocchi in cui era diviso il mondo facevano i conti con l’ansia atomica, sapevano cosa fare in caso di escalation (anche se di fronte a un ordigno nucleare non ci si salva riparandosi sotto un banco come per i terremoti), oggi questa preoccupazione è inesistente, superata da una miriade di ansie differenti, più "moderne". Eppure non lo è e anzi: con il proliferare degli ordigni di questa pericolosità e il loro aumento, viviamo sempre più in una casa imbottita di dinamite.
Il pericolo nucleare è ora: il monito di Bigelow
Razionale, lucida, tesa e distaccata come il suo cinema, Kathryn Bigelow torna otto anni dopo Detroit per ricordarci esattamente questo. Lo fa con un thriller politico firmato da Noah Oppenheim (che dalle parti del disincato politico americano aveva già scritto il bellissimo Jackie) e prodotto da Netflix che è il figlio naturale, la conseguenza logica della sua intera opera. C’è dentro tutta Bigelow in A House of Dynamite, sia nella sua cifra stilistica, sia nel suo modus operandi ma soprattutto nell’urgenza con cui racconta qualcosa che le sta a cuore senza che l’emotività prenda mai il sopravvento.
Diviso in tre macro-atti, il film racconta una mattinata come tante che si trasforma in una discesa ripidissima verso il non ritorno bellico. Un missile viene lanciato da qualche parte dall'Oceano Pacifico verso gli Stati Uniti, non rilevato dai sistemi di sicurezza americani. Pian piano la gravità della situazione diventa innegabile. Data la velocità degli eventi non c’è nulla di certo, ma le ipotesi sono verosimili, la ricostruzione realista e le prospettive nel loro essere credibili annichiliscono lo spettatore. La testata è verosimilmente nucleare, probabilmente lanciata dal regime nord coreano, ma non ci sono certezze. Quel che è certo è che s’innesca un conto alla rovescia di appena sedici minuti e che in questo strettissimo lasso di tempo pochissime persone dovranno prendere decisioni che cambieranno il destino di milioni di cittadini americani ed esseri umani, se non direttamente l’estinzione umana.
Chi conosce il cinema di Bigelow sa che non è un’autrice prona alle iperboli. La genialità del film sta proprio nel fatto che appare da subito evidente che il punto non sia tanto la testata nucleare, il nemico, i personaggi sotto tensione, ma la fotografia di quanto facilmente si potrebbe scivolare in una situazione come quella raccontata. Personale preparato ma che mai ha affrontato crisi simili si ritrova all’improvviso a dover scegliere se chiamare casa, andare nei bunker, tentare di rintracciare gli omologhi stranieri e frenare l'escalation. È una situazione da incubo che ripercorriamo più e più volte, da punti di vista differenti.
Bigelow non ha protagonisti, ama il cinema corale di personaggi competenti, preparati, ma assolutamente ordinari nelle reazioni umane ed emotive. Così saltiamo dai soldati di una base in Alaska che si ritrovano per la prima volta a mettere in atto un tentativo di intercettazione della testata nucleare (la cui difficoltà è simile a quella di “colpire un proiettile con un proiettile”), al personale della situation room della Casa Bianca che passa dal preparare il brief presidenziale mattutino a tentare di mettersi in contatto con i russi e i cinesi per fermare l’escalation preventiva, passando per il Pentagono e poi su su su, fino al presidente degli Stati Uniti. Un uomo a cui viene messo in mano un manuale codificato cromaticamente e a cui viene chiesto se e come attaccare, chi e con quante testate.
È questo forse il passaggio più potente di un film che passa in meno di due ore dal mettere a fuoco la tragedia dell’annientamento di una metropoli americana a chiedere a un uomo “che è preparato più alla scomparsa di un giudice della Corte suprema che a gestire la valigetta dei codici nucleari” di decidere tra la stasi (una resa che renderebbe l’America debole, esposta agli attacchi di un nemico incerto) e il suicidio. Prima ancora che il missile colpisca, prima ancora di scoprire se è un attacco sofisticato di una o più potenze straniere o l’opera “di un capitano di sottomarino lasciato dalla moglie che ha perso la testa”, per garantire la sopravvivenza di qualche centro abitato americano (Washington la danno già tutti per perduta, specie chi si trova in città) bisogna decidere se colpire il nemico (sì, ma quale?) azzerarne il potenziale offensivo, sperando che oltre alla base o al sottomarino non individuato da cui è partito l’attacco non ci siano altre sorprese.
A House of Dynamite non ha lezioni politiche o morali da dare, non descrive persone impreparate o incapaci di gestire la situazione (anche se l’impatto emotivo degli eventi fa vacillare molti) ed è spaventoso proprio per questo. Nella sua lucida, realistica analisi ci ricorda che la nostra tranquillità rispetto al problema nucleare è l’elemento più irrazionale e inspiegabile di questa storia, perché basta un missile non intercettato, un errore tecnico, una mossa disperata di un regime sotto pressione per innescare quella catena che porta persone preparate ma lontanissime dall’avere un quadro completo della situazione a prendere decisioni che mettono sul piatto della bilancia la sopravvivenza stessa dell’umanità. Se fosse melodrammatico, urlato, se mostrasse generali che sudano copiosamente mentre lanciano ordini incomprensibili sarebbe meno angosciante di quanto invece è nella sua tensione quieta, raggelante.